Con l’ordinanza n. 26997 del 21 settembre 2023, la Corte di Cassazione ha statuito che il datore di lavoro può negare le ferie richieste dal lavoratore al fine di evitare il superamento del comporto solo nell’ipotesi in cui sussistano concrete ed effettive ragioni ostative
La malattia del lavoratore e il periodo di conservazione del posto
In applicazione dell’art. 32 Cost., che eleva a diritto costituzionalmente garantito il diritto alla salute, e dell’art. 38 Cost., co. 2, l’art. 2110 c.c. dispone che il lavoratore che si assenta per malattia ha diritto non solo alla conservazione del proprio posto di lavoro, ma altresì alla corresponsione, quando previsto dalla legge o dalla contrattazione collettiva, della retribuzione o di un’indennità nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali, dalle norme corporative, dagli usi o secondo equità (c.d. periodo di comporto).
Solo una volta decorso tale periodo, il datore di lavoro potrà legittimamente recedere dal contratto di lavoro per superamento del comporto a norma dell’art. 2118 c.c., ossia riconoscendo al lavoratore il preavviso o la relativa indennità sostitutiva.
In tal modo, l’art. 2110 c.c. realizza un contemperamento tra contrapposti diritti di rango costituzionale, entrambi ritenuti meritevoli di tutela: il diritto del lavoratore alla salute e alla conservazione del posto e quello del datore di lavoro alla libertà di iniziativa economica privata.
Compatibilità tra ferie e malattia: brevi cenni giurisprudenziali
Il diritto ad un periodo annuale di ferie retribuite costituisce un principio costituzionale, sancito dall’art. 36, comma terzo, della Costituzione, che ne prescrive l’irrinunciabilità: “Il lavoratore ha diritto… a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”.
Il Codice Civile, all’art. 2109, in applicazione del principio costituzionale sopra richiamato, sancisce che:
– le modalità di fruizione delle ferie sono stabilite dall’imprenditore, tenuto conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del prestatore di lavoro;
– l’imprenditore deve preventivamente comunicare al prestatore di lavoro il periodo stabilito per il godimento delle ferie;
– il periodo di preavviso non può essere computato nelle ferie.
Da quanto sopra emerge che il diritto alla fruizione delle ferie è imposto da norme imperative, anche di rilievo costituzionale, le quali sono finalizzate alla tutela della persona, della personalità e della dignità del lavoratore.
La finalità della fruizione del periodo di ferie è, infatti, quella di consentire il recupero delle energie psico-fisiche e la piena estrinsecazione della personalità del lavoratore durante il godimento del tempo libero.
Sono, tuttavia, frequenti i casi in cui il lavoratore assente per malattia ed impossibilitato a riprendere servizio alla scadenza del periodo di comporto, chieda che il suo diritto alla conservazione del posto sia protratto per un periodo ulteriore, di durata pari a quello delle ferie maturate e non godute a quella data.
In tale ipotesi, l’interesse del lavoratore alla fruizione del periodo di ferie è, pertanto, sganciato dal recupero delle energie psico-fisiche (perché è chiaro che il dipendente malato non potrà godere di alcun recupero durante la malattia, sul punto Corte Cost., sentenza n. 616 del 30 ottobre 1987), ed è ricollegato, secondo l’elaborazione giurisprudenziale ormai consolidata, al mantenimento del posto di lavoro.
Sorge, quindi, in questi casi, il problema di stabilire se realmente sussista in capo al dipendente malato il diritto di essere collocato formalmente in ferie al fine di sospendere il decorso del periodo di comporto ed evitare, così, il licenziamento.
La giurisprudenza di legittimità, nella risoluzione del quesito, ha oscillato nel corso degli anni tra soluzioni più o meno vantaggiose per il lavoratore.
L’orientamento più risalente aveva negato al dipendente tale possibilità, affermando, sulla base del principio d’immutabilità del titolo dell’assenza dal lavoro, la legittimità del licenziamento per superamento del comporto, con il diritto del lavoratore alla sola indennità sostitutiva del preavviso (Cass. civ., sez. lav., 29 settembre 1998, n. 5294; Cass. civ., sez. lav., 30 ottobre 1983, n. 5504).
A conclusioni opposte era, invece, giunta la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione successiva alla pronuncia della Corte Costituzionale del 30 dicembre 1987, n. 616, con la quale il Giudice delle Leggi aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 2109 c.c., per contrasto con gli artt. 3 e 36 della Costituzione, nella parte in cui non prevedeva che la malattia insorta durante il periodo feriale ne sospendesse il decorso, rinviando al legislatore e alla contrattazione collettiva la definizione di una disciplina di dettaglio per fornire concreta attuazione al principio ivi stabilito.
Una discutibile interpretazione della sentenza del Giudice delle Leggi, aveva, infatti, portato la Suprema Corte a ritenere sussistente un principio di automatica conversione del titolo dell’assenza per malattia in assenza per ferie. Ciò sulla scorta del “principio secondo cui il periodo di comporto, ai fini dell’art. 2110 c.p.v. c.c., è interrotto dalla richiesta di godere del periodo feriale, che il datore di lavoro deve concedere anche in costanza di malattia del dipendente, implica, per l’ipotesi in cui detta richiesta – presentata nell’arco del termine esterno del comporto per sommatoria, in caso di malattia discontinua – non venga accolta, che la scadenza del comporto stesso viene spostata all’esaurimento dei giorni di ferie spettanti al lavoratore siccome non fruiti, ancorché maturati; a tal fine non rileva la coincidenza temporale del singolo episodio morboso con la richiesta di godere delle ferie, e l’operatività del principio non può ritenersi limitata ai giorni di assenza immediatamente successivi a ciascuna richiesta e per il periodo corrispondente alla durata delle ferie maturate in quel momento”. (Cass. civ., sez. lav., 6 giugno 1991, n. 6431; Cass. civ., sez. lav., 30 marzo 1990, n. 2608; Cass. civ., sez. lav., 11 marzo 1995, n. 2847; Cass. civ., sez. lav., 15 dicembre 1994, n. 10761).
Conseguentemente, anche il periodo di comporto sarebbe stato suscettibile di interruzione per effetto della richiesta del dipendente di godere del periodo feriale, con l’obbligo da parte del datore di lavoro di accogliere tale domanda anche in costanza di malattia.
L’applicazione di questo criterio suscitò enormi perplessità da parte degli interpreti che ne evidenziarono l’incompatibilità con l’inquadramento dell’istituto delle ferie delineato dalla stessa Corte Costituzionale del 1987, quale strumento volto alla reintegrazione delle energie psicofisiche del lavoratore consumate durante il periodo lavorativo, recupero, evidentemente, inconciliabile con lo stato di malattia.
Di qui, perciò, un inevitabile mutamento di indirizzo giurisprudenziale volto a fissare i limiti e le condizioni d’accesso al beneficio della conversione, attraverso un bilanciamento tra esigenza del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro ed interesse del datore alla prestazione lavorativa.
Secondo l’orientamento che appare ormai consolidato, il lavoratore assente per malattia ed impossibilitato a riprendere servizio non ha l’incondizionata facoltà di sostituire alla malattia il godimento delle ferie maturate quale titolo della sua assenza, allo scopo di bloccare il decorso del periodo di comporto; è invece il datore di lavoro, attenendosi, nella determinazione del tempo delle ferie, alla direttiva dell’armonizzazione delle esigenze aziendali con le esigenze del prestatore di lavoro, a dover prendere in seria considerazione la richiesta del lavoratore ed il suo interesse ad evitare la perdita del posto con la scadenza del periodo di comporto.
Sul punto, occorre, inoltre, rimarcare, come l’obbligo del datore di lavoro di prendere in considerazione l’ipotesi di accordare le ferie al lavoratore durante un periodo di malattia, sorga solo in presenza di una specifica istanza di fruizione delle stesse.
Dovrà essere il lavoratore, assente per malattia ed impossibilitato a prendere servizio, ed intenzionato evitare la perdita del posto di lavoro a seguito dell’esaurimento del periodo di comporto, a presentare apposita domanda, per consentire al datore di lavoro di valutare il fondamentale interesse del richiedente al mantenimento del posto (Cass. civ., sez. lav., 27 febbraio 2003, n. 3028).
Come più volte affermato dalla Cassazione, infatti, gli interessi particolari dei singoli lavoratori possono essere presi in considerazione dal datore, al fine di determinare il periodo di fruizione delle ferie, solo se portati a conoscenza di quest’ultimo; il potenziale contrasto con il principio di incompatibilità tra godimento delle ferie e malattia, impone, perciò, che la collocazione in ferie del lavoratore malato possa ipotizzarsi solo qualora quest’ultimo abbia presentato una specifica richiesta in tal senso, dalla quale traspaia il suo prevalente interesse a prevenire la cessazione del periodo di comporto.
Il fatto affrontato e l’esito dei giudizi di merito
La vicenda tra origine dal licenziamento per superamento del periodo di comporto intimato ad una lavoratrice. Quest’ultima impugnava il recesso deducendo di aver richiesto al datore di lavoro, con comunicazione trasmessa e pervenuta alla società prima del superamento del periodo di conservazione del posto, di poter fruire delle ferie maturate e non godute.
Con la medesima missiva la lavoratrice anticipava altresì al datore di lavoro l’intenzione di richiedere, una volta terminato il periodo di ferie, un periodo di aspettativa non retribuita nel caso in cui fosse proseguita la propria inabilità al lavoro. Il datore di lavoro rigettava la richiesta di fruizione delle ferie, autorizzando la lavoratrice a beneficiare di un periodo di aspettativa non retribuita di 120 giorni, comunicando altresì alla stessa che le ferie maturate e non godute le sarebbero state liquidate nell’ambito del licenziamento, comminato nel caso in cui, dopo il periodo di aspettativa non retribuita, la lavoratrice non fosse ancora in grado di riprendere l’attività lavorativa.
La dipendente agiva in giudizio impugnando il recesso. Nel giudizio così instaurato, il Tribunale adìto accoglieva le domande della lavoratrice, condannando la società alla reintegrazione in servizio della stessa.
La Corte d’Appello confermava sul punto la sentenza resa nel primo grado di giudizio e ciò sul presupposto, da un lato, che la Società aveva illegittimamente respinto la domanda avanzata dalla dipendente prima del superamento del comporto, volta a fruire delle ferie maturate per evitare proprio il superamento del periodo di conservazione del posto e, dall’altro, che il licenziamento era stato comminato prima della scadenza del periodo di comporto.
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Con sentenza n. 450 del 13 giugno 2023 la Corte di Appello di Messina ha stabilito che se il datore di lavoro ha omesso di svolgere la formazione dei dipendenti sui rischi specifici legati alle mansioni cui sono addetti, i giorni di malattia riconducibili alla nocività delle condizioni di lavoro non sono computabili ai fini del comporto, neppure se il datore ha adottato le misure necessarie a proteggere la salute dei lavoratori in adempimento al generale obbligo di tutelarne l’integrità psicofisica in base all’articolo 2087 del codice civile.
I fatti di causa traggono origine dalla controversia promossa da una fisioterapista, licenziata per superamento del periodo massimo di malattia. La lavoratrice ha impugnato il licenziamento, asserendo che dal periodo di comporto dovevano essere sottratti 57 giorni in cui l’assenza era riconducibile alla patologia del tunnel carpale sviluppata a causa del sollevamento dei pazienti immobilizzati (mansioni cui era addetta).
La domanda della lavoratrice veniva accolta nella fase sommaria e successivamente rigettata dal Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto sul rilievo che, benché le assenze fossero imputabili a uno stato di malattia riconducibile alle mansioni, il datore di lavoro aveva adempiuto all’obbligo di salvaguardia della salute secondo l’articolo 2087 del Codice civile.
La lavoratrice ha dunque impugnato la decisione del Tribunale dinanzi la Corte di Appello, che ha ribaltato la sentenza del Tribunale di primo grado.
La Corte d’Appello ha affermato che l’omissione da parte del datore dell’obbligo di formazione impedisce di conteggiare i giorni di assenza nel periodo di comporto.
Ad avviso della Corte, non è neppure sufficiente che il datore abbia assolto all’obbligo di informazione sui rischi generali e su quelli specifici legati alle singole attività dei lavoratori, in quanto la formazione ha una finalità ulteriore, che si integra con gli obblighi informativi.
In tale contesto, la Corte attribuisce rilevanza alle diverse obbligazioni di “formazione” e “informazione” chiarendone le differenze. La formazione è il processo educativo necessario ad acquisire le competenze per lo svolgimento in sicurezza delle mansioni, identificando, riducendo e gestendo i rischi. L’informazione, invece, è il complesso delle attività dirette a fornire conoscenze utili alla gestione, riduzione e gestione dei rischi. Secondo la Corte, “la prima costituisce la cornice indispensabile per rendere utile la seconda”.
La formazione deve, peraltro, rispondere a specifici canoni di adeguatezza, richiedendosi al datore di assicurare che i lavoratori ricevano un insegnamento ritagliato sugli specifici rischi insiti nelle mansioni di ciascuno. In tale contesto, l’assolvimento dell’obbligo di informazione non surroga dunque quello dell’obbligo di formazione.
Nel caso di specie, infatti, ad avviso della Corte, è altamente probabile che la lavoratrice, se fosse stata adeguatamente formata, non sarebbe andata incontro all’intervento, o avrebbe quantomeno avuto un decorso più breve o meno accidentato, riducendo così il numero di giornate di malattia e rientrando nel limite complessivo di 180 giorni nel triennio.
Quanto sopra, ha determinato la violazione dell’art. 2087 cod. civ., circostanza che ha avuto efficacia causale rispetto all’insorgenza della patologia nei termini e nei tempi accertati.
In questo contesto, il mancato adempimento datoriale dell’obbligo di formazione adeguata sui rischi per la salute impedisce di tener conto dei giorni di assenza nel conteggio del periodo massimo di malattia.
Conseguentemente, ad avviso del Collegio, nel caso di specie, il licenziamento irrogato dal datore conteggiando tali assenze è risultato illegittimo, con conseguente reintegrazione della lavoratrice sul posto di lavoro e risarcimento del danno, ai sensi dell’articolo 18 della legge 300/1970.z
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Con ordinanza n. 11136 del 27 aprile 2023, la Corte di Cassazione si è espressa in tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto precisando che le assenze per infortunio causato al lavoratore da cose che il datore aveva in custodia devono essere computate ai fini del comporto, se il datore di lavoro è in grado di dimostrare l’avvenuta adozione delle cautele antinfortunistiche e la natura imprevedibile ed inevitabile del fatto dannoso.
La lavoratrice, impiegata presso un appalto di ristorazione, impugna giudizialmente il licenziamento irrogatole per superamento del periodo di comporto. A fondamento della domanda, la lavoratrice deduce che, tra le assenze da computare al fine della conservazione del posto, non dovevano essere ricomprese quelle conseguenti all’infortunio occorsole a causa dello scoppio di una vetrinetta termica di proprietà della committente.
La Corte d’Appello di Venezia ha respinto l’appello proposto dalla lavoratrice confermando che, nel caso di specie, dovevano computarsi anche i giorni di assenza conseguenti all’infortunio essendo emersa, nel corso del giudizio, la assoluta imprevedibilità dell’evento. Inoltre, la Corte di merito ha rilevato che la committente in sede di appalto aveva consegnato le attrezzature in buono stato e che le stesse erano conformi alla normativa.
La lavoratrice ha proposto ricorso in Cassazione avverso la decisione assunta dalla Corte d’Appello di Venezia.
Con particolare riferimento al tema delle assenze computabili nel periodo di comporto, la Corte di Cassazione, sulla scorta di propri precedenti, ha confermato che le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale sono riconducibili, in linea di principio, all’ampia e generale nozione di infortunio o malattia contenuta nell’art. 2110 c.c., e sono, pertanto, normalmente computabili nel periodo di conservazione del posto di lavoro.
Difatti, affinché l’assenza non sia computabile nel periodo di comporto è necessario che in relazione a tale malattia e alla sua genesi sussista una responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c.
La responsabilità di cui all’art. 2087 c.c., precisa la Corte, non configura infatti un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la stessa va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. In tale contesto incombe, quindi, sul lavoratore che lamenti di avere subito a causa dell’attività lavorativa svolta un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro. Solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare l’avvenuta adozione delle cautele antinfortunistiche e/o la natura imprevedibile ed inevitabile del fatto dannoso.
In applicazione dei suddetti principi la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso avendo il giudice di merito accertato che, nel caso di specie, l’esplosione della cantinetta fosse un evento non prevedibile in considerazione della diligenza esigibile e delle tecniche precauzionali applicabili.
Pertanto, è stata confermata la legittimità del recesso, stante la computabilità delle assenze per infortunio ai fini del comporto.
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Con la recente sentenza n. 5288 del 20 febbraio 2023, la Corte di Cassazione ha statuito che, con riferimento al CCNL per i dipendenti del settore terziario (di seguito il “CCNL”), il periodo di conservazione del posto pari a 180 giorni, da calcolare in un anno solare decorrente dal primo episodio morboso, deve ritenersi riferito sia al comporto secco sia a quello per sommatoria.
La Corte d’Appello di Catanzaro accoglieva l’appello di un dipendente licenziato per superamento del periodo di comporto e, in parziale riforma della sentenza resa nel primo grado di giudizio, dichiarava illegittimo il recesso, condannando la società datrice di lavoro alla reintegrazione in servizio del dipendente e al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 18 Stat. Lav.
La Corte territoriale giungeva alla propria decisione statuendo che “in base al combinato disposto degli articoli 175 e 177 ccnl terziario […] se ad un periodo di malattia, nello stesso anno, segue un’interruzione, comincia a decorrere un nuovo periodo di comporto di 180 giorni”. La Corte d’Appello, dunque, avendo accertato che nel corso dell’anno solare il dipendente non avesse totalizzato 180 giorni consecutivi di malattia, riteneva che non potesse configurarsi il superamento del periodo di comporto posto a fondamento del recesso datoriale.
Avverso la sentenza resa dalla Corte d’Appello, la Società proponeva ricorso per cassazione, articolando due motivi di ricorso afferenti alla violazione e falsa applicazione dell’art. 175 del CCNL e deducendo che tale norma contemplasse un comporto c.d. “per sommatoria” – che, nel caso di specie, era da ritenersi superato dal dipendente – e non un comporto c.d. “secco” come statuito dalla Corte territoriale.
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 23155 del 2020, respingeva il ricorso promosso dalla Società, statuendo che “qualora all’infortunio succeda, come pacificamente avvenuto nel caso di specie, persino ove senza soluzione di continuità, un periodo di assenza per malattia, inizia a decorrere, dal momento dell’insorgenza della malattia, un distinto termine di 180 giorni solo alla cui scadenza può procedersi a licenziamento per superamento del periodo di comporto”.
La Società, ravvisando un errore di fatto nella pronuncia resa dagli Ermellini, ricorreva per la revocazione della relativa sentenza, rilevando che l’assunto su cui si fondava la pronuncia era erroneo. Gli atti processuali mostravano, infatti, che le assenze, in due distinti periodi, rispettivamente di 109 e 124 giorni, erano dovute esclusivamente a malattia e non anche ad infortunio come indicato dalla Suprema Corte.
La Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso per revocazione promosso dalla Società, ha preliminarmente rilevato come l’interpretazione adottata dai giudici d’appello non fosse rispondente al tenore letterale dell’articolo 175 del CCNL, laddove la norma contrattuale prevede il diritto alla conservazione del posto “per un periodo massimo di 180 giorni in un anno solare”, senza prevedere alcun riferimento al carattere consecutivo ovvero interrotto delle assenze.
La Suprema Corte ha inoltre statuito che la soluzione proposta dalla Corte d’Appello fosse censurabile anche sulla scorta di un’interpretazione sistematica delle norme, non essendo stata valorizzata la differenza, che il CCNL invece pone, tra l’ipotesi di assenze causate da un unico fattore morboso e la diversa ipotesi in cui concorrono diversi fattori causativi dell’assenza (ossia malattia e infortunio) che rendono operanti due autonomi periodi di comporto.
Sulla scorta di quanto sopra, gli ermellini hanno pertanto precisato che non può trovare accoglimento la tesi secondo cui, in caso di interruzione della malattia, cominci a decorrere un nuovo periodo di comporto nello stesso anno.
Secondo i Giudici di legittimità, dunque, il termine di 180 giorni, calcolato a ritroso dall’ultimo episodio morboso nell’ambito dell’anno solare di 365 giorni, deve applicarsi anche al comporto per sommatoria e non solo al comporto secco.
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Nell’ipotesi di reiterate assenze – che non abbiano superato il limite del periodo di comporto – è onere del datore provare ulteriori motivi idonei a giustificare il provvedimento espulsivo.
Il licenziamento irrogato in ragione delle reiterate assenze del dipendente dal luogo di lavoro
avvenute a ridosso di giornate di riposo e/o festive costituisce un’ingiusta e arbitraria reazione
datoriale al legittimo esercizio del diritto del dipendente di assentarsi per malattia e, pertanto, deve
considerarsi discriminatorio e ritorsivo qualora non sia superato il periodo di comporto stabilito
dal contratto collettivo.
Il Tribunale di Napoli con la sentenza del 14 settembre 2022 è giunto a tale conclusione sul
presupposto che il datore di lavoro non può recedere dal rapporto prima del superamento del
limite di tollerabilità dell’assenza (cd. “periodo di comporto”).
La vicenda sulla quale è stato chiamato a pronunciarsi il Tribunale è relativa al licenziamento per
giusta causa di un dipendente risultato assente reiteratamente per brevi periodi a distanza
ravvicinata nel tempo solitamente a ridosso delle giornate di riposo, delle festività o dei periodi di
ferie. Tali assenze avevamo reso, ad avviso della Società, oggettivamente inutilizzabile e discontinua
la prestazione lavorativa e causato gravi e onerosi disagi all’organizzazione aziendale.
Il Tribunale ha ritenuto illegittimo il licenziamento, richiamando, in primo luogo, la disposizione
normativa che disciplina, appunto, l’istituto della malattia, ovverosia l’art. 2110 cod. civ.. Tale precetto
normativo, sancisce, in sostanza, un punto di equilibro fra l’interesse del lavoratore alla
conservazione del posto di lavoro per un determinato periodo di tempo e quello del datore di lavoro
di non doversi far carico per un tempo indefinito “del contraccolpo che tali assenze cagionano
all’organizzazione aziendale”. Difatti, il superamento del periodo di comporto, solitamente definito
dalla contrattazione collettiva, avrebbe quale effetto quello di compromettere il diritto del datore di
lavoro a ricevere una prestazione lavorativa costante e regolare e, quindi, garantire il pieno
soddisfacimento delle finalità organizzative dell’azienda.
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