Con la recente ordinanza n. 6782 del 14 marzo 2024, la Suprema Corte di Cassazione ha affermato il seguente principio di diritto: “in tema di rapporto di lavoro a tempo indeterminato, la rinuncia del datore di lavoro al periodo di preavviso, a fronte delle dimissioni del lavoratore, non fa sorgere il diritto di quest’ultimo al conseguimento dell’indennità sostitutiva, attesa la natura obbligatoria del preavviso”.
Una dipendente rassegnava le dimissioni e, conseguentemente, il datore di lavoro decideva di esonerarla dal prestare in servizio il periodo di preavviso, senza corrisponderle la relativa indennità sostitutiva.
La lavoratrice dimissionaria ricorreva giudizialmente al fine di vedersi riconosciuta l’indennità sostitutiva del preavviso.
Il Tribunale di Pisa accoglieva il ricorso promosso dalla lavoratrice e, in sede di gravame, la pronuncia veniva altresì confermata dalla Corte d’Appello di Firenze.
Entrambi i giudici di merito fondavano il proprio convincimento sul presupposto che il datore di lavoro, pur avendo esonerato la ricorrente dalla prestazione lavorativa per la durata del preavviso, era tuttavia onerato a corrispondere l’equivalente dell’importo della retribuzione che sarebbe spettata alla stessa per il periodo di preavviso.
Avverso la sentenza della Corte d’Appello, la società ricorreva avanti la Suprema Corte di Cassazione.
Gli Ermellini, ribaltando la pronuncia di merito, hanno statuito che nell’ambito di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, la rinuncia del datore di lavoro al periodo di preavviso a fronte delle dimissioni del dipendente “non fa sorgere il diritto di quest’ultimo al conseguimento dell’indennità sostitutiva, attesa la natura obbligatoria del preavviso”.
I giudici sottolineano pertanto che il preavviso ha efficacia obbligatoria e, quindi, qualora una delle parti eserciti la facoltà di recedere con effetto immediato, il rapporto si risolve altrettanto immediatamente, con l’unico obbligo della parte recedente di corrispondere l’indennità sostitutiva.
Secondo i Giudici di legittimità, invece, la parte non recedente può liberamente rinunziare al preavviso senza riconoscere alcunché alla controparte, la quale non può vantare alcun diritto alla prosecuzione del rapporto di lavoro fino a termine del preavviso.
Su tali presupposti, la Suprema Corte ha accolto il ricorso proposto dalla società, statuendo la non debenza dell’indennità sostitutiva del preavviso in favore della lavoratrice dimissionaria.
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La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 27934 del 13 ottobre 2021, ha statuito che la rinuncia da parte del datore di lavoro al periodo di preavviso del lavoratore dimissionario fa venire meno l’obbligo di riconoscergli la relativa indennità sostitutiva. Ciò in quanto non è configurabile in capo alla parte recedente nessun interesse giuridicamente qualificato alla prosecuzione del rapporto di lavoro.
Nel caso di specie, un dirigente dimissionario aveva ottenuto decreto ingiuntivo di pagamento dell’indennità sostitutiva di preavviso, decisione confermata anche in sede di appello, sul presupposto che la rinunzia al periodo di preavviso da parte della Società a fronte delle sue dimissioni non la esonerava dal pagamento della relativa indennità sostitutiva.
La Società soccombente impugnava, dunque, la decisione di merito ricorrendo in Cassazione.
La Corte di Cassazione adita, nella motivazione dell’ordinanza in commento, ribadisce innanzitutto la funzione economica dell’istituto del preavviso che consisterebbe nell’attenuare per la parte che subisce il recesso le conseguenze pregiudizievoli della cessazione del contratto.
Pertanto, prosegue la Corte di Cassazione, il preavviso nel caso di:
Fatte queste premesse, La Corte di Cassazione si sofferma ad analizzare il tema della rinunziabilità del preavviso da parte del soggetto che subisce il recesso e le conseguenze giuridiche di tale rinunzia che variano a seconda dell’attribuzione allo stesso di efficacia reale o obbligatoria
La Corte di Cassazione, richiamando precedenti orientamenti di legittimità, conferma l’efficacia obbligatoria del preavviso, da cui discenderebbe la libertà di scelta da parte del soggetto recedente tra la prosecuzione del rapporto durante il periodo di preavviso e la corresponsione a controparte di una indennità sostitutiva.
Sulla base di tale ricostruzione, secondo la Corte di Cassazione, in capo alla parte non recedente si configura un diritto di credito dalla stessa liberamente rinunziabile. Pertanto, la parte non recedente nulla deve alla controparte in caso di sua rinunzia. In capo a quest’ultima non si configurerebbe, infatti, alcun interesse giuridicamente qualificato alla prosecuzione del rapporto di lavoro sino al termine del preavviso.
Su tali presupposti, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso della Società, revocando il decreto ingiuntivo emesso a favore del dirigente dimissionario.
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È bene, comunque, sottolineare che quanto statuito dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza in esame trova applicazione solo in riferimento alla disciplina legale del preavviso e non allorquando la contrattazione collettiva (i.e., CCNL Commercio) preveda che il datore sia tenuto a versare al dipendente dimissionario anche in caso di rinunzia al preavviso la relativa indennità sostitutiva.
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La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12932/2021, ha ribadito che la rinuncia da parte del lavoratore al preavviso e alla relativa indennità sostitutiva, formalizzata mediante un atto transattivo intervenuto successivamente all’intimazione del licenziamento, non produce effetti sull’obbligazione contributiva previdenziale che deve essere versata all’INPS.
Nel caso di specie, un istituto di credito, dopo aver intimato il licenziamento ad un gruppo di circa 90 dirigenti, aveva sottoscritto con gli stessi un accordo transattivo, in cui veniva pattuito il mutamento del titolo del recesso da licenziamento a risoluzione consensuale, con contestuale rinuncia da parte dei dirigenti stessi al preavviso e alla relativa indennità sostitutiva. Nonostante l’accordo raggiunto tra le parti, l’ente previdenziale agiva in giudizio nei confronti della società rivendicando il versamento dei contributi previdenziali sull’indennità sostitutiva del preavviso.
La Corte d’Appello territorialmente competente, riformando la decisione di primo grado, ha accolto le rivendicazioni dell’INPS osservando che i rapporti di lavoro si fossero risolti con effetto dal ricevimento della lettera di licenziamento in cui, in luogo della prestazione in servizio del periodo di preavviso, veniva riconosciuto ai dirigenti il pagamento della indennità sostitutiva. Quest’ultima costituiva, pertanto, elemento retributivo già entrato a far parte del patrimonio dei dirigenti, e come tale soggetto ad obbligazione contributiva.
Sul punto la Corte d’Appello riteneva irrilevante che tra le parti fosse intervenuto un accordo transattivo con cui ciascun dirigente, qualche settimana dopo l’intimazione del licenziamento, aveva rinunciato al preavviso e alla relativa indennità sostitutiva.
Avverso la sentenza di merito, la società ricorreva in cassazione.
La Corte di Cassazione adita ha ribadito, in via preliminare, che l’obbligazione contributiva:
Secondo la Corte di Cassazione, infatti, l’assoggettamento dell’indennità sostitutiva del preavviso alla contribuzione previdenziale consegue alla sua natura retributiva. Pertanto “è nel momento stesso in cui il licenziamento acquista efficacia che sorge il diritto del lavoratore all’indennità sostitutiva del preavviso e la conseguente obbligazione contributiva su tale indennità: se poi, successivamente, il lavoratore licenziato rinuncia al diritto all’indennità, tale rinuncia non potrà avere alcun effetto sull’obbligazione pubblicistica, preesistente alla rinuncia e ad essa indifferente perché il negozio abdicativo proviene da soggetto (il lavoratore) diverso dal titolare (INPS)”.
A giudizio della Corte di Cassazione, una volta intimato il licenziamento, l’indennità sostitutiva del preavviso – rientrando nel novero di “tutto ciò che ha diritto a ricevere” il lavoratore – “viene attratta, per il suo intrinseco valore retributivo, nel rapporto assicurativo, autonomo e distinto, completamente insensibile, per quanto detto, all’effettiva erogazione e, dunque, all’argomento difensivo di essere o meno entrata nel patrimonio del lavoratore”.
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In sostanza, secondo la Corte di Cassazione, l’accordo transattivo con cui datore di lavoro e lavoratore mutano il titolo del recesso da licenziamento a risoluzione consensuale, rinunciando nel contempo al preavviso e alla relativa indennità sostitutiva, si colloca in un momento successivo alla cessazione del rapporto di lavoro. Pertanto, l’obbligazione contributiva si è già prodotta nel rapporto assicurativo ed il datore di lavoro rimane gravato del versamento all’INPS dei contributi sull’indennità sostitutiva del preavviso.
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La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 9268 del 3 aprile 2019, ha affermato che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato ad una lavoratrice in stato di gravidanza durante il periodo di preavviso è legittimo ma inefficace, al pari di quanto avviene per il recesso intimato in costanza di malattia o infortunio.
I fatti
La Corte d’Appello territorialmente competente, in riforma della sentenza di primo grado, aveva respinto la domanda di una lavoratrice di nullità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatole, ai sensi dell’art. 54 del D.lgs. 151/2001. Nello specifico la Corte d’Appello aveva ritenuto che il licenziamento si fosse perfezionato alla data di ricevimento della relativa comunicazione, sebbene i suoi effetti fossero stati posticipati al termine del periodo di preavviso.
I giudici di merito avevano, infatti, individuato il momento di inizio dello stato oggettivo della gravidanza in base alla documentazione medica offerta in comunicazione ed alla CTU svolta in primo grado, accertando appunto che lo stesso risalisse ad una data successiva all’intimazione del licenziamento.
Avverso tale decisione la lavoratrice aveva proposto ricorso in Cassazione, eccependo, tra le altre, che la sopravvenienza nelle more del preavviso dello stato di gravidanza aveva reso operante la tutela di cui al D.lgs. 151/2001. Ciò in quanto il rapporto di lavoro durante il preavviso prosegue a tutti gli effetti con i connessi obblighi e diritti, salvo il consenso del lavoratore all’immediata o anticipata sua risoluzione.
La Corte di Cassazione adita ha confermato la decisione emessa dai giudici di secondo grado, respingendo il ricorso formulato dalla lavoratrice.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione ha evidenziato, riprendendo un suo consolidato orientamento, che il licenziamento, essendo un atto unilaterale recettizio, si perfeziona nel momento in cui la manifestazione di volontà del datore di lavoro giunge a conoscenza del lavoratore. E ciò indipendentemente dal fatto che l’efficacia – intesa come la produzione dell’effetto tipico, consistente nella risoluzione del rapporto di lavoro – venga differita ad un momento successivo.
In altri termini la verifica delle condizioni legittimanti l’esercizio del potere di recesso deve essere “compiuta con riferimento al momento in cui detto negozio unilaterale si è perfezionato e non già con riguardo, ove il licenziamento sia stato intimato con preavviso, al successivo momento della scadenza del preavviso stesso”.
Ed è proprio a questo principio che, secondo la Corte di Cassazione, si sono attenuti i giudici di merito allorquando hanno escluso la nullità del licenziamento ai sensi dell’art. 54 del D.lgs. 151/2001. Ciò sull’assunto che lo stesso sia stato intimato e si sia perfezionato nel momento in cui la lavoratrice non era in stato di gravidanza.
Sempre a parere della Corte di Cassazione, la Corte d’Appello ha fatto anche correttamente leva sulla formulazione dell’art. 54, comma 5, del D.lgs. 151/2001 che considera nullo il licenziamento intimato “dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine del periodo di interdizione dal lavoro nonché fino al compimento di un anno di età del bambino” e non al momento di produzione dei suoi effetti.
Orbene, lo stato di gravidanza insorto durante il periodo di preavviso non inficia la legittimità del licenziamento intimato alla lavoratrice antecedentemente. Tuttavia, la Suprema Corte ha ricordato che lo stato di gravidanza costituisce un evento idoneo, ai sensi dell’art. 2110 cod. civ., a determinare la sospensione del periodo di preavviso.
Ma nel caso in esame la lavoratrice ha dedotto soltanto la nullità del licenziamento e non anche l’inefficacia legata alla sospensione del preavviso, determinandone così il rigetto.