Il Tribunale di Udine (sezione lavoro, ordinanza 504 del 2 agosto 2024) ha ritenuto legittimo il provvedimento di sospensione dal servizio e dalla retribuzione che una società aveva comminato a una lavoratrice che si era rifiutata di sottoscrivere per accettazione la lettera a soggetto autorizzato al trattamento dei dati personali in base alla normativa in materia di privacy (si veda anche Ntpluslavoro del 26 settembre).
Secondo il Tribunale, per un fatto determinato dalla volontà della dipendente e comunque fuori dalla propria sfera di controllo, la società si è trovata nelle condizioni di dover necessariamente sospendere dal servizio e dalla retribuzione la ricorrente. Se così non avesse fatto, avrebbe di fatto violato le norme di garanzia previste dalla normativa in materia di protezione dei dati personali esponendosi inevitabilmente al rischio di incorrere nelle sanzioni perviste.
Le conseguenze del rifiuto
Il datore di lavoro affida al dipendente non solo risorse e strumenti adeguati a fare in modo che possa effettuare un corretto trattamento dei dati personali, ma anche la responsabilità di trattare tali dati con la dovuta riservatezza, correttezza e diligenza. Se dunque è vero che la nomina a persona designata ha natura unilaterale essendo un atto che promana dalla parte datoriale, è altrettanto vero che la mancata accettazione da parte del lavoratore porta a conseguenze nella gestione del rapporto di lavoro che producono su diversi piani:
– violazione del generale dovere di lealtà e correttezza nell’esecuzione del rapporto;
– inadempimento dei doveri contrattuali;
– integrazione di condotta disciplinarmente rilavante.
Anche sulla base di queste considerazioni, il Tribunale di Udine ha considerato il rifiuto di accettare la nomina come incaricato al trattamento dei dati elemento sufficiente a giustificare l’adozione del provvedimento disciplinare della sospensione dal servizio e dalla retribuzione.
Il caso specifico porta inevitabilmente a domandarsi quali siano, o possano essere, gli effetti e le conseguenze per il datore di lavoro che si trovi suo malgrado di fronte all’ipotesi in cui un lavoratore non accetti l’incarico a soggetto autorizzato al trattamento dei dati personali o, addirittura, manifesti l’intenzione di revocare una accettazione precedentemente fornita.
Logicamente, ma per completezza di ragionamento vale la pena soffermarsi brevemente anche su questo. Il tema non si pone qualora le mansioni assegnate a un lavoratore non presuppongano un trattamento di dati personali. Ad avviso di chi scrive, il tema non si pone per due ordini di ragioni. Da un lato, autorizzare e istruire un lavoratore che non tratta dati personali nell’espletamento delle attività lavorative sarebbe illogico e non necessario. L’articolo 29 del Regolamento Ue 2016/679 (il Gdpr) e l’articolo 2-quaterdecies del Dlgs 196/2003 dispongono, infatti, che a dover essere istruiti siano coloro che hanno “accesso a dati personali” e non coloro che non effettuano alcuna operazione di trattamento. Dall’altro lato, il rifiuto di chi, in ragione delle mansioni assegnate, non accede a informazioni personali non avrebbe alcun impatto nell’espletamento delle quotidiane attività lavorative. Pertanto, anche di fronte a tale ultima ipotesi, non si determinerebbe alcuna condotta potenzialmente rilevante dal punto di vista disciplinare.
“L’uso di dati personali non è soggetto all’obbligo di informazione ed alla previa acquisizione del consenso del titolare quando i dati stessi vengano raccolti e gestiti nell’ambito di un processo”. Ciò “purché i dati siano inerenti al campo degli affari e delle controversie giudiziarie che ne scrimina la raccolta, non siano utilizzati per finalità estranee a quelle di giustizia in ragione delle quali ne è avvenuta l’acquisizione e sussista il provvedimento autorizzatorio”.
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, ordinanza n. 24797/2024, del 16 settembre 2024.
Nel caso di specie, alcuni dipendenti avevano – ciascuno nell’ambito del proprio contenzioso avente ad oggetto questioni inerenti alle loro posizioni lavorative – depositato in giudizio la registrazione di una conversazione avvenuta diversi anni prima tra un loro collega ed alcuni dirigenti della società datrice di lavoro. Registrazione che era stata effettuata all’insaputa, e senza il consenso, dei partecipanti. I dirigenti coinvolti proponevano reclamo all’Autorità Garante per la protezione dei dati personali che respingeva la richiesta constatando che la registrazione, e quindi la connessa attività di trattamento dei dati personali, era stata effettuata per finalità connesse alla contestazione di addebiti nell’ambito del rapporto di lavoro. A questo punto, i dirigenti si rivolgevano al giudice ordinario.
Oltre alla consolidata giurisprudenza nazionale formatasi sul tema, la Cassazione richiama anche la Corte di giustizia (UE) che, con sentenza del 2 marzo 2023, C-268/21 – Norra Stockholm Bygg AB contro Per Nycander AB, chiariva che“qualora dati personali di terzi vengano utilizzati in un giudizio è il giudice nazionale che deve ponderare, con piena cognizione di causa e nel rispetto del principio di proporzionalità, gli interessi in gioco e che “tale valutazione può, se del caso, indurlo ad autorizzare la divulgazione completa o parziale alla controparte dei dati personali che gli sono stati così comunicati, qualora ritenga che una siffatta divulgazione non ecceda quanto necessario al fine di garantire l’effettivo godimento dei diritti che i soggetti dell’ordinamento traggono dall’articolo 47 della Carta“.
E, ricorda la Corte di Cassazione nella pronuncia in commento, gli “artt. 17 e 21 del GDPR rendono palese che nel bilanciamento degli interessi in gioco il diritto a difendersi in giudizio può essere ritenuto prevalente sui diritti dell’interessato al trattamento dei dati personali”.
Recentemente, l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali è tornata sul tema dell’utilizzo dei dati biometrici nell’ambito della gestione del rapporto di lavoro. “Ad oggi, l’ordinamento vigente non consente il trattamento dei dati biometrici dei dipendenti, per finalità di rilevazione della presenza in servizio”. Lo ribadisce l’Autorità in un provvedimento dello scorso 6 giugno 2024, con il quale ha comminato ad una concessionaria, datrice di lavoro, una sanzione di euro 120 mila (anche) per aver trattato illecitamente i dati biometrici dei propri dipendenti.
L’Autorità è intervenuta a seguito del reclamo di un dipendente, che lamentava:
il trattamento illecito di dati personali, attraverso un sistema biometrico installato presso le due unità produttive della società datrice di lavoro e
l’utilizzo di un software gestionale con cui ciascun dipendente era tenuto a registrare gli interventi di riparazione svolti sui veicoli assegnati, i tempi e le modalità di esecuzione dei lavori, nonché i tempi di inattività con le specifiche causali.
Con riferimento al primo motivo del reclamo, ossia la segnalazione inerente al trattamento dei dati biometrici, l’Autorità ha nuovamente, chiarito che l’utilizzo dei dati biometrici da parte del datore di lavoro non è consentito. Ad oggi, non esiste infatti nessuna norma di legge che preveda l’utilizzo del dato biometrico per la rilevazione delle presenze e con l’occasione, viene ricordato che neanche il consenso manifestato dai dipendenti può essere considerato un idoneo presupposto di liceità. Ciò per l’asimmetria tra le rispettive parti del rapporto di lavoro.
Con riferimento, invece, al secondo motivo del reclamo, l’Autorità ha accertato che la società da più di sei anni, mediante un software gestionale, raccoglieva dati personali relativi alle attività dei dipendenti per redigere report mensili da inviare a casa madre, contenenti dati aggregati sui tempi impiegati dalle officine per le lavorazioni effettuate. Tale attività era stata da sempre effettuata in assenza di un’idonea base giuridica e di un’adeguata informativa che, nel contesto del rapporto di lavoro, sono espressione dei principi di correttezza e trasparenza.
Vale la pena ricordare che quest’ultima attività potrebbe, tra le altre, comportare un indiretto controllo a distanza dell’attività dei lavoratori che, in quanto tale, richiederebbe che siano esperite le garanzie previste dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori: sottoscrizione di un accordo sindacale o, in mancanza, ottenimento di una autorizzazione da parte dell’Ispettorato Nazionale o Territoriale del Lavoro.
I dati sono diventati il nuovo petrolio e il loro ruolo verosimilmente crescerà ancora man mano che il digitale diventerà più centrale nelle nostre vite. Con implicazioni non banali in tema di privacy, come sottolinea Vittorio De Luca, fondatore dello studio legale De Luca & Partners. “Il legislatore comunitario è intervenuto in maniera importante su questo ambito nel corso degli ultimi anni, ma a livello aziendale il quadro è ancora diversificato tra realtà che hanno implementato e strutturato veri e propri modelli di compliance interni e nel tempo sono riuscite a mutare la cultura e la sensibilità di tutti coloro che compongono l’organizzazione, mentre altre continuano a considerare la data protection come un costo azienda piuttosto che un investimento”, sottolinea.
La normativa in materia di protezione dei dati personali e quella giuslavoristica sono ormai strettamente legate tra loro non solo per quel che concerne il trattamento dei dati relativi alle risorse umane. “Sempre più spesso ci capita di assistere aziende nella corretta gestione di richieste di accesso ai documenti e ai fascicoli personali che vengono – legittimamente – presentate dai lavoratori nell’ambito di procedimenti disciplinari nei loro confronti”, sottolinea. Con i rischi che possono derivare da una gestione scorretta di queste richieste “Oltre alle conseguenze sul fronte giuslavoristico, un soggetto interessato (in questo caso, il lavoratore) ha sempre la possibilità di effettuare una segnalazione all’Autorità Garante per la protezione dei dati”, spiega De Luca.
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Con l’ordinanza n. 15391 del 3 giugno 2024, la Corte di Cassazione chiarisce a quali condizioni il datore di lavoro, nell’ambito di un procedimento disciplinare nei confronti di un lavoratore, può utilizzare legittimamente i dati estratti dal Telepass (aziendale) installato sull’auto (aziendale). I giudici di legittimità, si legge nell’ordinanza, precisano che: “[…] a fronte di quanto specificamente previsto dal comma 3 dell’art. 4 L. n. 300/1970, è irrilevante la “consapevolezza del dipendente sulla presenza dell’apparato Telepass sull’autovettura e sulle corrette modalità di uso dello stesso”, essendo necessaria invece tale precipua informativa al lavoratore”. In altre parole, una adeguata informazione al lavoratore circa le modalità di utilizzo degli strumenti di lavoro e di effettuazione dei controlli datoriali rappresenta una discriminante tra una raccolta di dati lecita ed illecita e, ove mancante, rende inutilizzabili le informazioni raccolte “a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro”, compresi quelli disciplinari.