La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 26029 del 15 ottobre 2019, ha chiarito che nell’ambito di una procedura collettiva di riduzione del personale
I fatti di causa
Un dipendente assunto ai sensi della normativa sul collocamento obbligatorio aveva impugnato giudizialmente il licenziamento intimatogli nell’alveo di una procedura collettiva. Il lavoratore aveva basato l’impugnazione sull’assunto che, con il suo licenziamento, il datore avesse violato la c.d. quota di riserva prevista per legge. Il ricorso del lavoratore veniva accolto in primo e secondo grado, con condanna della società alla sua reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento in suo favore dell’indennità risarcitoria pari a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Avverso la decisione di merito la società soccombente ricorreva in cassazione.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione, nel rigettare il ricorso della società datrice di lavoro, ha osservato preliminarmente che nel caso di specie trova applicazione l’art. 10, comma 4, della legge 68/199. Secondo detta norma è annullabile il licenziamento per riduzione di personale o per giustificato motivo oggettivo esercitato nei confronti del lavoratore occupato obbligatoriamente qualora il numero dei lavoratori rimanenti occupati obbligatoriamente sia inferiore alla quota di riserva.
La ratio della norma è quella di evitare che, in occasione di licenziamenti individuali o collettivi motivati da ragioni economiche, l’imprenditore possa superare i limiti imposti alla presenza percentuale nella sua azienda di personale appartenente alle categorie protette, originariamente assunti in conformità ad un obbligo di legge.
In questo contesto la Corte di Cassazione ha evidenziato che le risultanze dei giudici di merito non potevano essere riesaminate in sede di legittimità, considerandole comunque sufficienti a sorreggere la decisione. I giudici di merito avevano, infatti, concordemente ritenuto incontestata la sussistenza in capo alla società dei requisiti per l’assunzione ai sensi della normativa sul collocamento obbligatorio e che, con il licenziamento del lavoratore, fosse stata violata la quota di riserva.
Ciò detto, a parere della Corte di Cassazione, la tutela applicabile al lavoratore è riconducibile all’ipotesi astratta dell’annullamento del recesso per violazione dei criteri di scelta, che sussiste “allorquando i criteri di scelta siano, ad esempio, illegittimi, perché in violazione di legge, o illegittimamente applicati, perché attuati in difformità dalle previsioni legali o collettive” (Cass. n. 12095/2016). Pertanto, nella fattispecie in esame trova applicazione il comma 3, dell’art. 5 della Legge 223/1991 secondo il quale “qualora il licenziamento sia intimato senza l’osservanza della forma scritta, si applica il regime sanzionatorio di cui all’articolo 18, primo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni. In caso di violazione delle procedure richiamate all’articolo 4, comma 12, si applica il regime di cui al terzo periodo del settimo comma del predetto articolo 18. In caso di violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1, si applica il regime di cui al quarto comma del medesimo articolo 18”.
Non, infatti, può considerarsi legittima, la scelta del datore di lavoro, che in violazione ad una disposizione di legge, include tra i licenziandi un lavoratore occupato obbligatoriamente superando il limite della quota di riserva. Ciò in quanto, se da un lato non si può non tenere conto del legittimo interesse dell’imprenditore al ridimensionamento dell’organico allo scopo di fronteggiare una situazione di crisi economica dall’altro non può non tenersi conto dell’interesse del lavoratore assunto obbligatoriamente alla conservazione del posto di lavoro.
Questa conclusione, secondo la Corte di Cassazione, appare conforme ad una ratio della disciplina finalizzata a garantire il rispetto delle quote di riserva e degli obblighi di assunzione del disabile che solo una tutela di tipo ripristinatorio della posizione lavorativa del licenziato può garantire.
La Corte di cassazione, con la sentenza 26029 del 15 ottobre 2019, riconferma che deve considerarsi annullabile il recesso nell’ambito di una procedura collettiva di riduzione del personale di un lavoratore occupato obbligatoriamente, se al momento della cessazione del rapporto il numero dei rimanenti occupati obbligatoriamente sia inferiore alla quota di riserva e chiarisce che le conseguenze di predetta annullabilità del licenziamento devono essere ricondotte a quelle attivabili in caso di recesso illegittimo per accertata la violazione dei criteri di scelta. Il caso sul quale è stata chiamata a pronunciarsi la Corte di legittimità si riferisce a un dipendente assunto in base alla normativa sul collocamento obbligatorio, licenziato nell’ambito di una procedura collettiva. Le corti territoriali in primo e secondo grado chiamate a decidere sulla domanda del lavoratore volta a ottenere una dichiarazione di illegittimità del licenziamento con ogni conseguenza di legge, avevano accolto la richiesta, condannando la società alla reintegrazione dello stesso nel posto di lavoro e al pagamento di una indennità risarcitoria pari a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. In particolare, la Corte di appello di Roma aveva confermato la decisione di primo grado sulla base dell’assunto secondo cui risultava indiscusso che si trattasse di un lavoratore obbligatoriamente assunto, della circostanza da considerarsi ormai pacifica con forza di giudicato interno, non avendo il datore di lavoro fornito prova contraria sul punto, che al momento della cessazione del rapporto il numero dei rimanenti lavoratori occupati obbligatoriamente fosse inferiore alla quota di riserva. Avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma, la società ha depositato ricorso in Cassazione, sorretto da un unico motivo. Il datore di lavoro ha sostenuto di non aver selezionato il soggetto invalido per esodarlo, ma di aver applicato una clausola della convenzione sindacale che prevedeva l’esternalizzazione del reparto cui era addetto e di aver comunque offerto al dipendente la ricollocazione nello stesso sito produttivo e nelle stesse mansioni già espletate, alle dipendenze della società appaltatrice del reparto, offerta che era stata rifiutata. La Cassazione, nel rigettare il motivo di impugnazione del datore di lavoro, riprendendo il dettato dell’articolo 10, comma 4, della legge 68 del 1999 secondo cui il recesso di cui all’articolo 4, comma 9, della legge 23 luglio 1991, numero 223, ovvero il licenziamento per riduzione di personale o per giustificato motivo oggettivo, esercitato nei confronti del lavoratore occupato obbligatoriamente, sono annullabili qualora, nel momento della cessazione del rapporto, il numero dei rimanenti lavoratori occupati obbligatoriamente sia inferiore alla quota di riserva prevista all’articolo 3 della presente legge, precisa quanto segue.
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