La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 23385 del 23 ottobre 2020, ha affermato che, in materia di rinunzie e transazioni, la dichiarazione del lavoratore può assumere valore di rinuncia purché risulti accertato, sulla base dell’interpretazione dell’accordo transattivo, che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati ovvero obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicare o di transigere sui medesimi.

I fatti di causa

Il caso di specie trae origine dal ricorso presentato da un dirigente di una società per azioni nominato, nel 1995, amministratore delegato della stessa. Al dirigente, per tale carica, non era stato riconosciuto alcun compenso specifico. Cessato l’incarico, il dirigente si rivolgeva così al Tribunale di Venezia chiedendo la liquidazione del compenso de quo indicando come parametro di quantificazione il compenso che nel 1998 era stato determinato in favore del nuovo amministratore delegato.

Il Tribunale prima e la Corte di Appello poi rigettavano la domanda del dirigente ritenendo che la questione del compenso fosse stata conciliata con un accordo transattivo intervenuto tra le parti il 17 settembre 1998, nonostante il testo letterale dello stesso fosse poco chiaro sul punto. In particolare, i giudici di seconde cure ritenevano che la predetta transazione avesse posto fine in modo definitivo non solo al rapporto dirigenziale, ma anche a tutte le questioni riguardanti il ruolo svolto da amministratore delegato, inclusa la questione relativa al compenso. Tale decisione veniva adottata sull’assunto che, in tema di interpretazione dei contratti, non deve essere valorizzato, al fine di individuare l’intenzione comune delle parti, solo il dato letterale dell’accordo, ma anche altri elementi quali la condotta posteriore.

Avverso la decisione di merito il dirigente ricorreva in Cassazione lamentando una “immotivata” svalutazione degli elementi letterali dell’accordo transattivo. A suo dire, in esso le parti avevano utilizzato i termini solo al singolare e richiamato il solo rapporto di lavoro dirigenziale, mentre non vi era alcun riferimento all’incarico di amministratore delegato e alcuna rinuncia ai relativi compensi.


La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha ritenuto il ricorso presentato dal dirigente infondato riprendendo, nell’iter della propria motivazione, alcuni principi basilari in tema di interpretazione degli atti abdicativi e conciliativi riguardanti i reciproci diritti derivanti dal rapporto di lavoro.

In primis, è stato affermato che “In materia di rinunzie e transazioni, con riguardo alla prestazione di lavoro subordinato e alla conclusione del relativo rapporto, la dichiarazione del lavoratore può assumere il suddetto valore sempre che risulti accertato, sulla base dell’interpretazione del documento, che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati ovvero obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi” (cfr. Cass. n. 10056/1991; Cass. n. 1657/2008).

Secondo la Corte di Cassazione, inoltre, l’oggetto del negozio transattivo deve essere identificato non in relazione alle espressioni letterali usate dalle parti, bensì in rapporto all’oggettiva situazione di contrasto che le stesse hanno iniziato a comporre attraverso reciproche concessioni non solo nella lite in atto ma anche in vista di una controversia che intendono prevenire. E il giudice di merito, al fine di indagare sulla portata e sul contenuto transattivo di una scrittura negoziale, può attingere ad ogni elemento idoneo a chiarire i termini dell’accordo, ancorché non in esso richiamati, senza che ciò comporti una violazione del principio in base al quale la transazione deve essere provata per iscritto (cfr. Cass. n. 729/2003; Cass. n. 9120/2015).

La Corte di Cassazione ha, altresì, affermato che “in tema di interpretazione generale dei contratti, poi, qualora le espressioni letterali utilizzate non siano sufficienti per ricostruire la comune volontà delle parti, occorre avere riguardo all’intento comune che esse hanno perseguito”. In riferimento, quindi, all’interpretazione dell’accordo transattivo, per verificare se sia configurabile tale negozio ed il suo effettivo contenuto, occorre indagare innanzitutto se le parti, mediante quest’ultimo, abbiano perseguito la finalità di porre fine alla lite. Senza, tuttavia, esser necessario che esse esteriorizzino il dissenso sulle contrapposte pretese, né che siano usate espressioni direttamente rivelatrici del negozio transattivo, la cui esistenza può anche essere desunta da qualsiasi elemento che esprima la volontà di porre fine ad ogni ulteriore contesa.

Concludendo, secondo la Corte di Cassazione, la decisione dei giudici di merito non può che considerarsi giuridicamente corretta e logicamente congrua, sottraendosi così a qualsiasi sindacato di illegittimità.

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A fronte di questo quesito, si è ritenuto opportuno volgere qualche breve riflessione in merito all’incidenza che questa vicenda potrà avere sui rapporti di lavoro, valutando se la peculiare contingenza possa o meno esonerare l’operatore impossibilitato nell’adempimento del contratto – nel caso di specie, il datore di lavoro che sospende il pagamento della retribuzione – e ad invocare la forza maggiore.

La natura onerosa e sinallagmatica del rapporto di lavoro subordinato

Come noto, all’art. 2094 Cod. Civ., il legislatore definisce prestatore di lavoro subordinato “chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”.

Ai fini di nostro interesse, dall’analisi di predetta norma emerge che nel contesto di un rapporto di lavoro subordinato: 

  • il lavoratore o prestatore di lavoro si obbliga a svolgere una specifica attività lavorativa e 
  • il datore di lavoro si obbliga a pagare una retribuzione. 

Aggiungiamo che il rapporto di lavoro subordinato è, tra l’altro, caratterizzato: 

  • dall’onerosità, nel senso che uno degli elementi essenziali che lo caratterizza è il riconoscimento della retribuzione al lavoratore; 
  • da prestazioni sinallagmatiche, nel senso di prestazioni corrispettive, in concreto prestazione di lavoro a fronte di retribuzione.

La relazione tra datore di lavoro e prestatore può essere letta anche sotto il profilo della posizione debitoria e creditoria. 

In quest’ottica, il lavoratore subordinato è tenuto a un’obbligazione di fare, ovvero la locatio operarum, tradizionalmente intesa come obbligazione di mezzi (le proprie energie lavorative), il datore di lavoro è tenuto a corrispondergli la retribuzione.

Sospensione della retribuzione in ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa di forza maggiore

Ciò chiarito, quando il datore di lavoro può sospendere legittimamente il pagamento della retribuzione?

Traslando il contenuto delle disposizioni contenute negli artt. 1206 e 1218 c.c. al rapporto di lavoro subordinato, in forza del sinallagma sotteso al rapporto di lavoro, il datore di lavoro sarà tenuto al pagamento della retribuzione sempre e comunque, ad eccezione del caso di impossibilità della prestazione lavorativa quindi in presenza di un fatto impossibilitante che esprima l’assenza della sua colpa e colpisca il substrato aziendale della prestazione lavorativa (es. alluvione, terremoto). 

In tutti gli altri casi, a fronte della messa a disposizione della prestazione di lavoro da parte del lavoratore, il datore di lavoro non può sottrarsi al pagamento dello stipendio.

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Fonte: versione integrale pubblicata su Guida al lavoro de Il Sole 24 ore.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25355 del 9 ottobre 2019, ha affermato che il datore di lavoro che invochi l’aliunde perceptum o percipendium da detrarre dal risarcimento dovuto al lavoratore, è tenuto ad allegare circostanze di fatto specifiche e a fornire indicazioni puntuali, rivelandosi inammissibili richieste probatorie generiche o con finalità meramente esplorative. L’antefatto che la Suprema Corte ha esaminato, è stato, in estrema sintesi, il seguente. Un liquidatore di sinistri veniva licenziamento dalla Compagnia Assicurativa presso cui prestava la propria attività lavorativa all’esito di un procedimento disciplinare azionato nei suoi confronti per aver tenuto una condotta gravemente colposa. In particolare, al lavoratore era stato contestato di non aver effettuato in 18 episodi, prima di disporre i pagamenti, tutta l’attività propedeutica ed istruttoria necessaria ad accertare il reale verificarsi nonché la dinamica degli accadimenti relativi ai sinistri e delle conseguenti lesioni denunciate. Il Tribunale di Cosenza aveva respinto l’opposizione ex art. 1, comma 51, della L. 92/2012, proposta dal lavoratore e dalla Compagnia assicurativa avverso l’ordinanza emessa nella fase sommaria. Con essa, in parziale accoglimento dell’impugnativa di licenziamento, era stato dichiarato risolto il rapporto di lavoro e condannata la Compagnia Assicurativa al pagamento di una indennità pari a 20 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. La Compagnia assicurativa proponeva reclamo in appello ed il lavoratore si costituiva proponendo reclamo incidentale. La Corte distrettuale riteneva insussistenti i 18 episodi contestati, osservando, peraltro, che “il ragguardevole carico di lavoro attribuito al lavoratore rendesse (comunque) inesigibile (ndr avesse comunque reso inesigibile) la conoscenza delle anomalie che, invero, erano state (asseritamente) rilevate, dalla parte datoriale, solo a seguito di una dispendiosa e merita attività di indagine”. La Corte di appello territorialmente competente accoglieva così il reclamo incidentale del lavoratore ed annullava il licenziamento ad esso intimato, ordinando: – da un lato, alla Compagnia assicurativa di reintegrare il lavoratore e condannandola al versamento, con decorrenza dalla data di licenziamento a quella di effettiva reintegra, dei contributi previdenziali e assistenziali, oltre interessi, – dall’altro, al lavoratore di restituire la somma pari a 8 mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre accessori dalla percezione al soddisfo. Non solo. La Corte d’Appello rigettava l’eccezione di compensazione dell’aliunde perceptum o percipendium sollevata da parte datoriale, sostenendo che non erano stati offerti “elementi specifici, idonei a dar conto di un minor danno da risarcire”. Avverso tale sentenza, la Compagnia assicurativa proponeva ricorso, affidato a quattro motivi, e il lavoratore resisteva con controricorso. Di nostro interesse, si rivela soltanto il quarto motivo di impugnazione con cui l’Impresa di Assicurazione ha denunciato l'”omessa e/o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio; la critica afferisce al rigetto dell’eccezione di aliunde perceptum et percipendium; la parte ricorrente imputa alla Corte di Appello di non aver effettuato i necessari approfondimenti al riguardo, come era invece, suo onere”. La Suprema Corte, nel rigettare il predetto motivo di impugnazione, ha, tra le altre, sottolineato come la Corte d’appello avesse fatto corretta applicazione del principio di diritto secondo cui “il datore di lavoro che invochi l’aliunde perceptum o percipiendum da detrarre dal risarcimento dovuto al lavoratore deve allegare circostanze di fatto specifiche e, ai fini dell’assolvimento del relativo onere della prova su di lui incombente, è tenuto a fornire indicazioni puntuali, rivelandosi inammissibili richieste probatorie generiche o con finalità meramente esplorative (ex plurimis, Cass. Nr. 4999 del 2017)”.

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Dal 14 giugno 2017 è ufficialmente diventato operativo il lavoro agile (cd smart working), inteso come “una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato”, svolta in parte nei locali aziendali ed in parte all’esterno, senza una postazione di lavoro fissa, ma nei limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale previsto dalla legge e dalla contrattazione collettiva. Tale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro deve essere stabilita con accordo scritto tra le parti, anche con forme di organizzazioni per fasi, cicli e obiettivi, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa.