La Corte di Cassazione, con sentenza n. 24478 del 10 settembre 2021, ha dichiarato nullo per frode alla legge il patto di stabilità accluso al contratto di agenzia che, prevedendo una penale eccessivamente onerosa in caso di violazione, incide in misura significativa sulla normale facoltà di recedere di una delle parti, limitandola fortemente.
I fatti di causa traggono origine dalla decisione del Tribunale territorialmente competente, confermata in grado d’appello, che aveva dichiarato privo di giusta causa il recesso esercitato da un agente, condannandolo al pagamento in favore della preponente dell’indennità sostitutiva del preavviso. I giudici di merito avevano, altresì, dichiarato nullo il patto di stabilità apposto al contratto di agenzia che prevedeva in capo all’agente la corresponsione di una penale pari a Euro 100.000 qualora avesse deciso di recedere, per qualsivoglia motivo, prima di una determinata data.
Avverso la decisione di merito, ricorreva in cassazione la preponente sostenendo che la penale non rappresentava una sanzione per il mancato adempimento dell’obbligo di preavviso concretizzando, invece, una liquidazione anticipata del danno derivante dall’aver la stessa investito in un rapporto di collaborazione che si aspettava stabile. Resisteva, contro ricorso l’agente ed entrambe le parti presentavano memorie.
La Corte di Cassazione, nel confermare la decisione di merito, ha ritenuto applicabile alla fattispecie un proprio principio secondo cui l’art. 1750, comma 4, cod. civ. – nel porre la regola inderogabile per la quale i termini di preavviso devono essere gli stessi per le due parti del rapporto – esprime un precetto materiale che vieta pattuizioni che alterino la parità delle parti in materia di recesso.
Conseguentemente, a parere della Corte di Cassazione, è nullo per frode a detto precetto (art. 1344 cod. civ.) il patto che contempli, in aggiunta all’obbligo di pagare l’indennità di mancato preavviso, una penale a carico del solo agente che si renda inadempiente all’obbligo di dare preavviso (Cass. n. 24274 del 14/11/2006).
Nel caso di specie, sebbene il patto di stabilità non fosse correlato formalmente all’obbligo di osservare il preavviso, i giudici di merito hanno – ad avviso della Corte– correttamente disposto la sua nullità.
Secondo la Corte di Cassazione, il patto di stabilità, per come strutturato, realizzava l’effetto di alterare la parità delle parti in materia di recesso. Ciò in quanto “il suo rilevantissimo importo, incidesse (ndr incideva) in maniera significativa sulla normale facoltà di recedere di una sola delle parti, limitandola fortemente, ed eludendo, per tale via, il principio imperativo della parità delle parti medesime in materia di recesso”. Il patto in questione aveva, infatti, l’effetto di rendere “notevolmente più gravosa, per il solo agente, la possibilità di liberarsi dal vincolo corrispondendo esclusivamente l’indennità di preavviso”.
In considerazione di quanto sopra, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso presentato dalla preponente, condannandola alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese di lite.
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La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6915 pubblicata il giorno 11 marzo 2021 si è espressa circa l’applicabilità ai rapporti di agenzia dell’istituto del recesso per giusta causa previsto dall’art. 2119 cod. civ. per i rapporti di lavoro subordinato. La Suprema Corte, nel confermare l’applicabilità di tale istituto anche ai rapporti di agenzia, ha sottolineato come, ai fini della valutazione della gravità della condotta, occorre tener conto che nell’ambito dei rapporti di agenzia il rapporto di fiducia assume maggiore intensità rispetto al rapporto di lavoro subordinato. Pertanto, ai fini della legittimità del recesso è sufficiente un fatto di minore consistenza.
La pronuncia della Suprema Corte trae origine da una sentenza della Corte di Appello di Roma che aveva respinto il ricorso proposto da un agente avverso il recesso per giusta causa intimatogli dalla società preponente.
Nel caso di specie la società preponente aveva receduto per giusta causa, in quanto, durante lo svolgimento del rapporto di agenzia, l’agente aveva contattato altri agenti, suoi collaboratori, con la finalità di coinvolgergli in un’attività in concorrenza con la stessa.
A parere della Corte d’Appello tale condotta aveva integrato la violazione dell’art. 1746 cod. civ. secondo il quale, nell’esecuzione dell’incarico, l’agente deve tutelare gli interessi del preponente ed agire nel rispetto dei principi di lealtà e buona fede. La Corte d’Appello era giunta alla conclusione che la violazione di tale dovere, indipendentemente dall’esito positivo o negativo dell’iniziativa, costituisse un comportamento in contrasto con i doveri essenziali dell’agente integrando un’ipotesi di giusta causa di recesso ex art. 2119 cod. civ.
Avverso la sentenza della Corte d’Appello, l’agente ricorreva in Cassazione.
La Corte di Cassazione, nel respingere il ricorso presentato dall’agente, ha ribadito che “l’istituto del recesso per giusta causa ex art. 2119 c.c. è applicabile anche al contratto di agenzia, dovendosi tuttavia tener conto, per la valutazione della gravità della condotta che in quest’ultimo ambito il rapporto di fiducia – in corrispondenza della maggiore autonomia di gestione dell’attività per luoghi, tempi, modalità e mezzi in funzione del conseguimento delle finalità aziendali– assume maggiore intensità rispetto al rapporto di lavoro subordinato”.
Ne consegue, a parere della Corte, che “ai fini della legittimità del recesso, è sufficiente un fatto di minore consistenza, secondo una valutazione rimessa al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità se adeguatamente e correttamente motivata”.
Tuttavia, sempre secondo la Corte, richiamando un orientamento ormai consolidato, “al fine di valutare l’inadempimento del lavoratore, occorre aver riguardo agli elementi tipici dei due rapporti con la conseguenza che l’analogia tra le due fattispecie normative può operare solo in quanto non venga a confliggere con tali elementi”.
In conclusione, a parere della Corte di Cassazione, la Corte d’Appello avrebbe correttamente confermato quanto statuito dal giudice di primo grado che aveva individuato la sussistenza di una giusta causa di recesso nell’iniziativa assunta dall’agente di volere stornare i collaboratori del preponente per indirizzarli verso l’attività imprenditoriale che voleva avviare. Ciò sul presupposto che la violazione dell’obbligo di fedeltà in capo all’agente è ravvisabile in qualunque attività che possa nuocere al preponente indipendentemente dal fatto che, come nel caso di specie, lo storno non si concretizzi poi effettivamente.
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