Con l’ordinanza n. 1621/2021 dello scorso 30 dicembre, il Tribunale di Padova ha affermato che non sussiste alcun obbligo generale, in capo al datore di lavoro, a trattare: il datore di lavoro può legittimamente scegliere il sindacato o i sindacati con cui avviare le proprie trattative, potendo anche eventualmente escludere dalla trattiva alcuni di essi. Parimenti, secondo il Tribunale, non esiste un obbligo a trattative separate. Nel caso di specie, la FIOM CIGL ha presentato ricorso ex art. 28 della Legge n. 300/1970 affinché venisse dichiarata antisindacale la condotta della società datrice di lavoro per averla esclusa dalle trattative per il rinnovo dell’accordo sul premio di risultato (trattative avanzate solo con la FIM CISL). Nel rigettare il ricorso, il Tribunale ha, innanzitutto, evidenziato che il datore di lavoro non può intervenire nelle dinamiche intersindacali. A fronte del rifiuto della FIM CISL a trattative unitarie, legittimamente la società ha accettato di negoziare con il solo sindacato firmatario dell’accordo anche in sede di rinnovo. Inoltre, a parere del Tribunale, non sussistente il requisito dell’attualità, presupposto necessario per l’esperibilità del procedimento ex art. 28 della L. 300/1970. Ciò in quanto, una volta intervenuto il rinnovo del contratto aziendale, risulta venuto meno l’interesse dell’organizzazione sindacale ricorrente.
Con decreto dello scorso 20 settembre, il Tribunale di Firenze ha accolto il ricorso presentato dalla Fiom CIGL della Provincia di Firenze (il “Sindacato”) avverso la condotta tenuta da un’azienda nell’ambito della procedura ex Legge 223/1991 che ha portato al licenziamento dei 422 dipendenti. Secondo il giudice, il Sindacato ha avuto notizia della volontà dell’azienda di cessare definitivamente l’attività produttiva, con conseguente necessaria cessazione di tutti i contratti di lavoro in essere, solo a seguito della ricezione della lettera di avvio della procedura di licenziamento di collettivo. Ciò in violazione degli obblighi di informazione previsti dagli artt. 9 e 10 del CCNL Metalmeccanici applicato nonché dall’accordo di secondo livello. Il Sindacato, secondo il giudice, è stato messo davanti al fatto compiuto e privato della facoltà di intervenire sull’iter di formazione della decisione datoriale, “nell’ambito del democratico e costruttivo confronto che dovrebbe caratterizzare le posizioni delle parti”. La rimozione degli effetti di tale comportamento antisindacale, non può che implicare, secondo il giudice, l’obbligo per l’azienda di (i) rinnovare correttamente l’informativa omessa e, quale ulteriore e necessitata conseguenza, (ii) revoca del procedimento ex L. n. 223/91. Pertanto il Tribunale ha ordinato alla società di: (i) revocare la lettera di apertura della procedura; (ii) porre in essere le procedure di consultazione e confronto previste dal CCNL e dall’accordo aziendale; (iii) pubblicare il testo del decreto sui principali quotidiani nazionali e (iv) pagare le spese di lite in favore del Sindacato.
Con la sentenza n. 20819 del 21 luglio 2021, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, nel confermare la sentenza di merito, ha ritenuto discriminatoria la clausola acclusa al contratto di lavoro del personale di cabina degli aeromobili (intitolata “Estinzione del contratto”), impugnata dal sindacato di categoria. Ciò in quanto, la clausola in questione – contenuta nel CCNL irlandese applicato dall’azienda citata in giudizio ai propri dipendenti – è volta ad impedire interruzioni di lavoro e azioni sindacali collettive di qualsiasi tipo. Quanto detto, pena l’annullamento del contratto e la perdita di qualunque incremento retributivo o indennitario o di cambio turno. Secondo la Corte di Cassazione, la libertà sindacale è tutelata sia dalla Costituzione che dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, potendo costituire oggetto di “convinzioni personali”. E l’esercizio dei diritti riconducibili alla libertà sindacale è una delle possibili declinazioni delle “convizioni personali” che non possono costituire fattore di discriminazione. Inoltre, le Sezioni Unite hanno affermato che il sindacato, quando agisce, come nel caso di specie, iure proprio a tutela di interessi omogeni individuali di rilevanza generale può chiedere ed ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale. In considerazione di quanto sopra è stata confermata la condanna della società al risarcimento del danno non patrimoniale in favore dell’Organizzazione sindacale ricorrente, quantificato in appello in via equitativa in Euro 50.000, per comportamento antisindacale.
Con decreto n. 8609 del 28 marzo 2021, il Tribunale di Milano ha dichiarato applicabile l’art 28 della Legge n. 300/1970 (“Statuto dei Lavoratori”) ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa organizzati dal committente ai sensi dell’art. 2 del D.Lgs. 81/2015. Il giudice non ha ritenuto che l’espressa menzione del datore di lavoro di cui al citato art. 28 costituisca argomento sufficiente per sottrare alle organizzazioni che operano nell’ambito di rapporti di collaborazione la tutela d’urgenza. Nel caso di specie il giudice ha considerato antisindacale la condotta tenuta dall’amministratore di una società che, attraverso la diffusione di un video messaggio, aveva invitato i propri lavoratori (shopper) ad aderire ad una neocostituita organizzazione sindacale, al solo scopo di stipulare un nuovo accordo collettivo di settore. Secondo il giudice, infatti, la condotta assunta dalla società si pone in contrasto con il precetto dell’art. 17 dello Statuto dei Lavoratori che vieta espressamente di costituire o sostenere, con qualsiasi mezzo, le associazioni sindacali dei lavoratori. Condotta resa ancora più grave dal fatto che il messaggio conteneva anche una descrizione dei rischi e delle possibili ripercussioni a cui sarebbe andata incontro la società, con conseguenze sui singoli rapporti di lavoro, in caso di mancata sottoscrizione dell’accordo sindacale. Secondo il giudice, così facendo, la società, non solo ha tentato di indirizzare i lavoratori verso una determinata associazione ma ha di fatto avuto l’opportunità di conoscere i nominativi di coloro che avevano seguito le proprie indicazioni e di chi, al contrario, le aveva disattese.
La Corte di Cassazione, con la sentenza 6495 del 9 marzo 2021, ha affermato che, ai sensi dell’art. 30 della L. 300/1970 (“Statuto dei Lavoratori”), i componenti degli organi direttivi, provinciali e nazionali, delle organizzazioni sindacali hanno diritto a permessi retribuiti per partecipare alle relative riunioni. L’utilizzo di tali permessi per finalità diverse comporta una assenza dal servizio che può giustificare la risoluzione del rapporto di lavoro. Tuttavia, secondo la Corte di Cassazione, l’astratta rilevanza sotto il profilo disciplinare della condotta del lavoratore colpevole non esime dal verificare, in concreto, la sua gravità e il suo rientrare eventualmente nell’ambito della giusta causa di licenziamento. La valutazione di proporzionalità è da demandarsi ad un giudice. E nel caso di specie, il licenziamento per giusta causa del dirigente sindacale è risultato sproporzionato analizzando la condotta addebitata e quella risultata dall’esito dell’istruttoria svolta. Al dirigente sindacale era stato, infatti, contestato di essersi arbitrariamente assentato dal lavoro, avendo svolto durante la fruizione del permesso sindacale attività non inerenti a quella per la quale il permesso era stato concesso. Ma era emerso che il lavoratore, pur non avendo partecipato ad alcuna riunione sindacale, aveva comunque svolto attività riconducibili al suo mandato. Pertanto, secondo la Corte di Cassazione, correttamente i giudici di merito avevano annullato il licenziamento intimato al dirigente sindacale ,ritenendo la condotta contestagli rientrante tra quelle punibili con una sanzione conservativa.