La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 27757, pubblicata il 3 dicembre 2020, ha affermato che il rinnovo di un Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro (“CCNL”) sottoscritto esclusivamente da alcune associazioni datoriali, non pregiudica l’applicazione delle clausole relative al trattamento retributivo anche alle imprese che aderiscono alle associazioni sindacali non firmatarie dello stesso. Nello specifico un lavoratore aveva ottenuto decreto ingiuntivo per il pagamento di una determinata somma, di cui una quota imputata alla mancata corresponsione degli aumenti contrattuali previsti dal CCNL di settore e una quota quale conseguenza degli aumenti contrattuali previsti dal CCNL rinnovato. Il decreto veniva confermato in primo grado mentre in secondo grado veniva revocato e la società condannata al pagamento della differenza tra l’importo di cui al decreto ingiuntivo e la somma dalla stessa erogata al lavoratore a titolo di una tantum in esecuzione di un accordo conciliativo intervenuto tra i sindacati dei lavoratori e quelli datoriali che non avevano inizialmente firmato il rinnovo. Secono la Suprema Corte, adita dalla società datrice di lavoro, nel rapporto di lavoro subordinato la retribuzione prevista dal CCNL acquista, seppur in via generale, una “presunzione” di adeguatezza ai principi di proporzionalità e sufficienza che investe le disposizioni economiche dello stesso contratto anche nel rapporto interno fra le singole retribuzione ivi stabilite.
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 8265/2020, ha definito i requisiti di rappresentantività che un accordo aziendale di secondo livello deve avere per essere inconfutabile verso i terzi, incluso l’INPS (“Istituto Nazionale per Previdenza Sociale”). Nel caso di specie l’Istituto aveva disconosciuto lo sgravio contributivo sui premi di risultato erogati in base ad un accordo aziendale sottoscritto annualmente dal datore di lavoro e un rappresentante dei lavoratori.La Corte, nel dare ragione all’INPS, ha innanzitutto evidenziato che gli accordi aziendali hanno una efficacia vincolante parificabile a quella dei contratti collettivi nazionali, anche se sono destinati ad essere applicati ad una determinata azienda o a parte di essa. Ciò in quanto non si tratta di una sommatoria di più contratti individuali bensì di atti aventi una autonomia sindacale e attinenti ad una pluralità di lavoratori considerati nella loro collettività. L’accordo aziendale, a parere della Cassazione, è posto a tutela di interessi collettivi della comunità di lavoro aziendale e l’eventuale inscindibilità della disciplina che ne risulta concorre a giustificare la sua efficacia erga omnes. Pertanto, secondo la Corte, nel caso di specie, gli accordi aziendali stipulati dal datore di lavoro e da un rappresentante dei lavoratori non sindacalista non sono idonei ad integrare i presupposti per la decontribuzione proprio per l’assenza di rappresentatività. Essi hanno, a parere della Corte, natura di contratti individuali di lavoro, ancorchè plurisoggettivi o plurilaterali.
Il 19 maggio 2020 è stato pubblicato, nella Gazzetta Ufficiale n. 128, il Decreto Legge 19 maggio 2020 n. 34 rubricato “Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19” (cd. “Decreto Rilancio”). Il Decreto Rilancio apporta modifiche e integrazioni ad alcune previsioni contenute nella Legge di Conversione del Decreto Cura Italia (Legge 24 aprile 2020, n. 27), soprattutto in materia di ammortizzatori sociali conservativi, tra i quali la Cassa Integrazione Ordinaria (“CIGO”) e assegno ordinario (“FIS”) per eventi riconducibili all’emergenza epidemiologica da COVID19. Tra le modifiche più rilevanti si annovera la reintroduzione dell’obbligatorietà della procedura di preventiva informazione, consultazione ed esame congiunto con le Organizzazioni Sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Procedura questa che può essere svolta “anche in via telematica, entro i tre giorni successivi a quello della comunicazione preventiva “. Il medesimo obbligo era stato inizialmente previsto dal “Decreto Cura Italia”, poi successivamente soppresso dalla Legge di Conversione. Non è stata, invece, introdotta alcuna modifica all’mpianto previsto dal Decreto CuraIitalia per le aziende che hanno più di 5 dipendenti e che vogliono accedere alla Cassa Integrazione Guadagni in Deroga, sempre con causale COVID-19. Queste hanno l’obbligo di sottoscrivere un accordo con le Organizzazioni Sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, da effettuarsi anche in modalità telematica.
La Corte di Cassazione, con la sentenza 1 del 2 gennaio 2020, ha affermato che non devono confondersi i requisiti di cui all’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori per la costituzione di rappresentanze sindacali, titolari dei diritti di cui al titolo 3, con la legittimazione prevista dall’art. 28 del medesimo Statuto (repressione condotta sindacale). Ciò in quanto l’art 19 richiede la sottoscrizione di contratti collettivi nazionali (o anche provinciali o aziendali, purché applicati in azienda) oppure la partecipazione del sindacato alla negozazione relativa agli stessi contratti, quali rappresentanti dei lavoratori. Invece, l’art. 28 richiede solo che l’associazione sia nazionale. Il relativo procedimento è riservato ai casi in cui venga in questione la tutela dell’interesse collettivo del sindacato al libero esercizio delle sue prerogative. Interesse questo che è distinto ed autonomo rispetto a quello dei singoli lavoratori. E nel caso di specie la Corte di Cassazione ha dichiarato antisindacale la condotta del datore di lavoro che aveva trasferito da uno stabilimento all’altro l’80% dei lavoratori iscritti o affiliati ad una determinata sigla sindacale, indipendentemente dal fatto che le esigenze aziendali poste a fondamento fossero risultate legittime. La condotta datoriale è stata considerata lesiva degli interessi collettivi di cui era portatrice l’organizzazione sindacale. A parere della Corte l’elemento statistico, dal quale emerga una situazione di svantaggio per la sigla sindacale, realizza una presunzione di discriminazione a fronte della quale è onere del datore di lavoro fornire la prova contraria.