Il 5 dicembre 2023 è stato pubblicato l’accordo di rinnovo del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro per i Dirigenti delle Banche di Credito Cooperativo sottoscritto da Federcasse ed i sindacati FABI, First/CISL, Fisac/CIGL, UGL Credito e UilCa/UIL.
Le novità introdotte riguardano in primo luogo la parte economica con adeguamenti retributivi differenziati (c.d. “doppio binario”). Nello specifico, a decorrere dal 1° gennaio 2024 la retribuzione annua minima spettante ai dirigenti sarà pari ad euro 73.000. In aggiunta, ai dirigenti che non percepiscono una retribuzione fissa complessiva annua lorda pari almeno ad euro 80.000 è riconosciuto un emolumento economico aggiuntivo denominato “Elemento distinto della retribuzione” di importo pari alla differenza sussistente di volta in volta tra la predetta retribuzione e sino a concorrenza della somma di euro 80.000, suddiviso per 13 mensilità.
Infine, sempre a decorrere dal 1° gennaio 2024 cesseranno di essere corrisposti: (a) il trattamento di reperibilità (art. 21); (b) l’emolumento per la partecipazione normale a riunioni fuori dell’orario di lavoro (art. 24) nonché la diaria di missione (art. 40).
Con riferimento poi, alla parte normativa, di seguito si riportano le modifiche degli istituti di particolare interesse:
Lo scorso maggio è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea la Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 2023/970.
Quest’ultima è entrata in vigore lo scorso 6 giugno 2023 e gli Stati Membri dovranno adeguarsi alle previsioni in essa contenute entro il 7 giugno 2026, pena l’avvio della procedura di infrazione a loro carico.
A ciascuno Stato Membro (inclusa l’Italia) è richiesto di adottare tutte le misure legislative necessarie a garantire la trasparenza retributiva anche nel settore privato.
In particolare, dovranno essere introdotti – nella legislazione nazionale – obblighi normativi che impongano ai datori di lavoro di fornire informazioni adeguate sul salario e sui livelli retributivi sia ai candidati ad una posizione lavorativa che ai lavoratori ed alle lavoratrici già in forza.
In questo senso, dispone la Direttiva, dovrà essere garantito ai candidati ad una posizione lavorativa il diritto di ricevere tutte le informazioni sui livelli salariali relativi ad una specifica mansione, mentre tutti i lavoratori e le lavoratrici dovranno poter accedere alle informazioni sui livelli salariali individuali e quelli medi ripartiti per genere, per categorie di personale o per mansioni analoghe. Dovrà essere poi impedito al datore di lavoro di chiedere ai candidati informazioni sulle retribuzioni percepite negli attuali o nei precedenti rapporti di lavoro.
Per garantire il funzionamento dei meccanismi di trasparenza introdotti, dovrà inoltre essere previsto un obbligo per i datori di lavoro di informare annualmente tutti i lavoratori e le lavoratrici del diritto di ricevere le informazioni in questione, le quali – in ogni caso – dovranno essere obbligatoriamente comunicate anche all’autorità designata, da quei datori di lavoro che occupino più di 100 dipendenti.
Le ultime citate informazioni dovranno essere anche fornite ai rappresentanti dei lavoratori e delle lavoratrici, agli ispettorati del lavoro e agli organismi per la parità, i quali avranno anche diritto di chiedere dettagli ulteriori in merito a qualsiasi dato fornito, comprese spiegazioni su eventuali differenze retributive di genere.
Gli strumenti legislativi nazionali – da adottarsi in conformità con la Direttiva – dovranno garantire a tutti i lavoratori e a tutte le lavoratrici l’accesso alle informazioni sui livelli salariali individuali e quelli medi ripartiti per genere, ponendo un onere in capo al datore di lavoro di adottare meccanismi appropriati e funzionali allo scopo.
I datori di lavoro dovranno anche predisporre una descrizione dei criteri (neutrali) alla base della determinazione della retribuzione e dell’avanzamento di carriera e dovranno fornire ai lavoratori che lo richiederanno tutte le informazioni sul livello retributivo.
Gli Stati membri dovranno provvedere affinché i datori di lavoro forniscano le informazioni relative alla loro organizzazione, in particolare sul divario retributivo di genere (nelle componenti complementari o variabili) sia nella assegnazione che nella quantificazione, descrivendo il numero di lavoratori di sesso femminile e di sesso maschile in ogni quartile retributivo.
È inoltre previsto che i datori di lavoro con almeno 250 lavoratori e lavoratrici in forza forniscano, entro il 7 giugno 2027 e successivamente ogni anno, i sopra citati dati con riferimento all’anno civile precedente. Medesimi obblighi sono previsti per i datori di lavoro che hanno tra le 150 e le 249 risorse umane, che dovranno fornire le informazioni entro il 7 giugno 2027 e successivamente ogni tre anni, mentre i datori di lavoro che hanno tra i 100 e i 149 lavoratori e lavoratrici in forza avranno tempo fino al 7 giugno 2031 e successivamente ogni tre anni.
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La massima
“Nella situazione tragica in cui il Paese e il mondo intero si sono trovati a causa dell’epidemia da Covid-19, l’imposizione ai lavoratori dell’utilizzo della mascherina da parte [del datore di lavoro], affermata nel Protocollo condiviso con le OOSS, non è certo misura irrazionale o eccessivamente gravosa, ma risponde pienamente al dovere datoriale di tutelare al meglio i propri dipendenti”. Il comportamento del lavoratore che rifiuti di indossare la mascherina in occasione di una riunione aziendale appare quindi del tutto ingiustificato ed è legittima la conseguente sanzione disciplinare della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione irrogata dal datore di lavoro.
Come è noto, l’art 2087 del Codice Civile, impone in capo al datore di lavoro l’obbligo di “adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Nel contesto emergenziale, dovuto alla diffusione del virus Covid-19, come noto, il Decreto Legge Cura Italia, ha equiparato l’infezione da Covid-19 contratta in occasione di lavoro ad infortunio, rendendo ancor più gravoso l’onere del datore di lavoro di garantire l’osservanza da parte dei lavoratori delle misure introdotte in azienda a tutela della salute e sicurezza degli stessi.
Come noto, nel contesto emergenziale, Governo e Parti Sociali hanno sottoscritto, dapprima in data 14 marzo 2020 il “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”, successivamente aggiornato dal Protocollo del 24 aprile 2020 e, da ultimo, in data 6 aprile 2021 mediante la sottoscrizione del “Protocollo condiviso di aggiornamento delle misure per il contenimento della diffusione del virus SARS-Co V-2/COVID-19 negli ambienti di lavoro”.
Tra le misure di sicurezza previste dalla normativa emergenziale, rientra a pieno titolo, l’obbligo del datore di lavoro di fornire ai lavoratori mascherine chirurgiche, il cui utilizzo, in tutti i casi di condivisione degli ambienti di lavoro, al chiuso o all’aperto, risulta obbligatorio.
Accanto ai doveri imposti in capo al datore di lavoro dalla normativa vigente in materia di salute e sicurezza, si affianca tuttavia un vero e proprio obbligo di cooperazione da parte del lavoratore nell’adempimento delle misure predisposte dal datore di lavoro a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, così come previsto dall’Art. 20 del T.U. in materia di salute e sicurezza.
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Con ordinanza del 19 maggio 2021, resa all’esito di un giudizio cautelare, il Tribunale di Modena ha ritenuto legittima la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione di due operatori sanitari non vaccinati.
La vicenda trae origine dal rifiuto di due fisioterapisti che prestavano la propria attività lavorativa presso una residenza per anziani di effettuare la vaccinazione anti Covid-19, con la conseguente decisione datoriale di sospendere il rapporto lavorativo e il relativo onere retributivo sino all’avvenuta inoculazione del vaccino.
Il Giudice, adito dai dipendenti con ricorso cautelare ai sensi dell’art. 700 c.p.c., ha confermato la piena legittimità del provvedimento datoriale, motivando il proprio convincimento sulla base della normativa in tema di salute e sicurezza sul luogo di lavoro, nonché – sebbene norma sopravvenuta rispetto ai fatti di causa – con riferimento alle disposizioni di cui al recente decreto-legge n. 44/2021.
L’excursus logico-giuridico del Giudice prende le mosse dall’art. 20 del D.Lgs. 81/2008 (c.d. Testo Unico sulla Sicurezza) che, secondo l’interpretazione dallo stesso fornita, impone al prestatore di lavoro un obbligo giuridicamente rilevante di cura e sicurezza per la tutela dell’integrità psico-fisica propria e di tutti i soggetti terzi con cui entra in contatto nel luogo di lavoro, con la conseguente sanzionabilità giuridica di comportamenti difformi.
Opinare diversamente, escludendo dunque tale onere di collaborazione in capo al dipendente, depotenzierebbe – come precisato dal Giudice – l’obbligo di sicurezza che, ai sensi dell’art. 2087 c.c., incombe sul datore di lavoro. Ne consegue che, dall’analisi delle norme citate, il Legislatore abbia inteso concepire un sistema in cui il datore di lavoro e il prestatore siano
soggetti attivi, tenuti a collaborare fattivamente alla realizzazione di un ambiente di lavoro salubre e sicuro.
Data tale premessa, si è poi reso necessario procedere nell’ambito del giudizio all’analisi dell’esigibilità o meno di un dovere di collaborazione in tema di sicurezza in capo al dipendente anche nell’ipotesi in cui la misura precauzionale da adottare sia costituita dalla sottoposizione al vaccino.
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Il Tribunale di Trento, con la sentenza n. 86 del 2020, ha riaperto la questione della c.d. “doppia retribuzione” dei lavoratori il cui rapporto di lavoro cambia titolarità come effetto di un atto di cessione di azienda, qualora il trasferimento sia dichiarato illegittimo. Sul punto si sono susseguiti nel tempo orientamenti giurisprudenziali contrastanti.
Secondo una recente pronuncia della Corte di Cassazione (sentenza n. 9093/2020) nel caso sopra rappresentato deve essere riconosciuta al lavoratore una doppia retribuzione; pertanto, il datore di lavoro cedente non potrebbe detrarre dagli emolumenti dovuti per il passato quanto lo stesso lavoratore abbia percepito, a titolo di retribuzione, per l’attività prestata in favore dell’”ex cessionario”.
Il Tribunale di Trento, discostandosi da tale orientamento, esclude che il lavoratore, a seguito dell’annullamento del trasferimento di azienda, possa essere parte di due prestazioni (una «prestazione materiale» nei confronti del già cessionario, e una «prestazione giuridica» nei confronti del già cedente che nasce come effetto della sentenza). In tal caso, infatti, i due rapporti di lavoro hanno per oggetto la medesima prestazione lavorativa e, conseguentemente, la medesima controprestazione retributiva, sebbene diversa sia la fonte giuridica dell’obbligazione di cui costituisce oggetto.
A fronte di tali premesse, il giudice di merito ha stabilito che se un trasferimento di azienda viene dichiarato illegittimo, il lavoratore che torna alle dipendenze del cedente non può chiedere il pagamento delle retribuzioni che avrebbe percepito nel lasso di tempo intercorrente dalla cessione alla sentenza se durante tale periodo ha comunque percepito la retribuzione dal cessionario.