Post-lockdown per aziende agili: La disruption imposta dalla pandemia di Covid-19 ha creato una situazione di forte discontinuità, rendendo improvvisamente necessari strumenti come lo smart working, spesso risolto in una semplice estremizzazione forzata del lavoro “da remoto”. A fronte del complesso scenario normativo diventa di fondamentale importanza adottare un piano strategico di istituzionalizzazione e regolamentazione dello smart working non solo post- lockdown ma anche nell’immediato, al fine di salvaguardare il datore di lavoro dagli oneri imposti in ambito Health & Safety.
Vittorio De Luca analizza le criticità dello smart working “semplificato” e forniscealle impresedegli alert sugli aspetti principali da regolamentare al Webinar Online “Quale sarà il New Normal per il mercato assicurativo?”
Il Tribunale di Bologna, con la sentenza 2759 del 23 aprile 2020, ha chiarito la corretta applicazione e portata dell’articolo 39 del Decreto Legge 17/2020 (cd. “Decreto Cura Italia”), convertito nella Legge 27/2020, affermando che il lavoratore disabile ha il diritto di svolgere la propria attività in modalità di lavoro agile.
Una lavoratrice nel mese di marzo aveva richiesto, stante il proprio stato di invalidità, di essere collocata in modalità lavorativa agile per il periodo dell’emergenza da coronavirus. A sostegno della propria domanda la lavoratrice allegava documentazione medica attestante un’invalidità in misura del 60 per cento. Inoltre, la stessa evidenziava di avere una figlia affetta da disabilità ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 104/1992.
La società datrice di lavoro rispondeva alla lavoratrice che al momento sarebbe stata collocata in cassa integrazione e che alla ripresa dell’attività lavorativa sarebbero state prese in esame le richieste di collocamento in modalità di lavoro agile pervenute. Tuttavia, alla ripresa dell’attività solo ad alcuni dipendenti veniva concessa la possibilità di lavorare in modalità di lavoro agile e non alla stessa.
Da qui il ricorso sottoposto al Giudice del Lavoro, in via d’urgenza ex articolo 700 cod. proc. civ., finalizzato da un lato, ad accertare l’illegittimità della decisione assunta dalla società e, dall’altro, il diritto a poter prestare l’attività lavorativa in modalità agile.
Le fonti normative che si sono succedute negli ultimi mesi per fronteggiare l’emergenza pandemica in corso hanno individuato talune categorie di lavoratori a cui è riconosciuto il diritto o la priorità al lavoro agile.
In particolare, hanno diritto al lavoro agile. i lavoratori dipendenti disabili nelle condizioni di cui all’articolo 3, comma 3, della legge 104/1992 o che abbiano nel proprio nucleo familiare una persona con disabilità nelle condizioni di cui al predetto articolo e hanno, invece, la priorità i lavoratori del settore privato affetti da gravi e comprovate patologie con ridotta capacità lavorativa.
Sulla base delle disposizioni normative sopra richiamate, il Tribunale di Bologna ha ritenuto sussistente il diritto della ricorrente a essere collocata in modalità lavorativa agile qualificando la stessa come soggetto “fragile” sia per lo stato di invalida sia per aver a proprio a carico una figlia affetta da grave disabilità. Condizioni queste, sufficienti a giustificare la sussistenza del requisito del fumus boni iuris.
Mentre, per quanto concerne la sussistenza del periculum in mora il giudice di merito ha stabilito che sia la lavoratrice che la figlia sono “gravemente esposte al rischio di contagio, anche in forma grave, e l’emergenza sanitaria è ancora in corso. Vi è più che fondato timore di ritenere che lo svolgimento della attività di lavoro in modalità ordinarie, uscendo da casa per recarsi al lavoro, esponga la ricorrente, durante il tempo occorrente per una pronuncia di merito, al rischio di un pregiudizio imminente ed irreparabile per la salute sua e della figlia convivente”.
Su tali presupposti, il Tribunale di Bologna ha accolto il ricorso della lavoratrice ed ordinato alla società di consentirle lo svolgimento delle proprie mansioni in modalità di lavoro agile., riconoscendo come sussistente la compatibilità della modalità agile del lavoro con le caratteristiche della prestazione. Ciò sull’assunto che la ricorrente già utilizzava ordinariamente telefono e strumenti informatici.
Sul tema del lavoro agile. ai tempi del COVID-19 si è anche pronunciato il Tribunale di Grosseto con l’ordinanza 23 aprile 2020. A parere del Tribunale i numerosi provvedimenti emergenziali emanati allo scopo di prevenire la sua diffusione hanno considerato il ricorso al lavoro agile, disciplinato in via generale dalla legge 81/2017, come una priorità.
Pertanto, il datore di lavoro, laddove sia nelle condizioni di applicarlo, non può imporre, come nel caso di specie, al dipendente (disabile) la fruizione delle ferie. Il ricorso alle ferie, secondo il Tribunale, “non può essere indiscriminato, ingiustificato o penalizzante, soprattutto laddove vi siano titoli di priorità per ragioni di salute”.
Per completezza si segnala che il sempre maggior rilievo del lavoro agile in questo contesto epidemiologico è stato, da ultimo, confermato dal Decreto Rilancio. In particolare, detto Decreto ha riconosciuto, fino alla cessazione dello stato di emergenza e, comunque non oltre il 31 dicembre 2020, il diritto al lavoro agile ai genitori con figli di età inferiore a 14 anni, le cui mansioni siano compatibili con tale modalità di lavoro. Ciò a condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa o che non vi sia genitore non lavoratore.
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I provvedimenti emergenziali emanati dal Governo per gestire l’emergenza pandemica in corso da Covid-19 hanno attribuito, a tutti gli effetti, al lavoro agile anche la funzione di strumento di contenimento del contagio e conseguentemente di misura per la tutela della salute dei lavoratori.
Il lavoro agile infatti, è una modalità di svolgimento dell’attività lavorativa che pur consentendone la continuazione, permette, riducendo sostanzialmente gli ingressi e la frequentazione della sede di lavoro, di ridurre i contatti tra le persone e di conseguenza anche i rischi di contagio.
Se è vero che non si può parlare di un diritto del lavoratore al lavoro agile è altrettanto vero che non si può definire mera facoltà, quella del datore di lavoro, ad attivare la modalità di lavoro agile ai tempi del COVID19.
Sul punto, è lo stesso Tribunale di Grosseto (sez. lavoro, ordinanza 23 aprile 2020 ), il cui provvedimento esamineremo nel proseguo ad affermare che: “In tale contesto, il ricorso al lavoro agile, disciplinato in via generale dalla legge 22 maggio 2017, n. 81, è stato considerato una priorità. Per ovvie ragioni, tale modalità lavorativa non può, né poteva, essere imposta in via generale ed indiscriminata; cionondimeno la stessa è stata, reiteratamente e fortemente, raccomandata ed addirittura considerata modalità ordinaria di svolgimento della prestazione nella P.A. (cfr. art. 87, D.L. 18/2020). Inoltre, ai sensi dell’art. 39, co. 2, D.l. ult. cit., “ai lavoratori del settore privato affetti da gravi e comprovate patologie con ridotta capacità lavorativa è riconosciuta la priorità nell’accoglimento delle istanze di svolgimento delle prestazioni lavorative in modalità agile ai sensi degli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017,”
La vicenda trae origine da un ricorso d’urgenza ex art. 700 c.p.c. depositato da un lavoratore che rivendicava il diritto all’attivazione della modalità di lavoro agile.
Il lavoratore, de quo, con mansioni di addetto all’attività di back-office del servizio di assistenza legale e contenzioso, con contratto a tempo indeterminato ed inquadramento al 5° livello del CCNL del settore commercio e terziario:
– con comunicazione del 2 marzo 2020, aveva richiesto al proprio datore di lavoro di poter svolgere la prestazione lavorativa in modalità lavoro agile in considerazione della “personale condizione patologica” essendo invalido civile oltre che a fronte “degli eventi drammatici che stanno interessando il nostro paese”;
– dal 3 marzo 2020 era in malattia e avrebbe dovuto riprendere il servizio il successivo 20 marzo, avendogli il medico prescritto l’allontanamento dal posto di lavoro in quanto, a causa delle patologie croniche polmonari preesistenti, non poteva essere sottoposto al rischio di contrarre l’infezione da COVID19.
In riscontro alla richiesta del dipendente, la società gli aveva prospettato la collocazione in ferie da computarsi su un monte ore non ancora maturato o, in alternativa, la sospensione non retribuita del rapporto fino alla cessazione della incompatibilità indicata nella prescrizione medica.
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Fonte: Il Quotidiano del Lavoro
Sarebbe improprio dire che, almeno sino a quando non sarà concluso il periodo di emergenza Covid-19, il datore di lavoro è libero di decidere se adottare la modalità di svolgimento del lavoro per i suoi dipendenti, in modalità di lavoro agile. Ciò si evince dal DPCM del 11 marzo in cui è previsto che sia attuato il massimo utilizzo da parte delle imprese di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza.
Le aziende che non hanno voluto attivare il Lavoro Agile – o Smart Working, come molti preferiscono chiamarlo – in caso di contagio del virus contratto nello svolgimento dell’attività lavorativa in azienda, potrebbero trovarsi a dover giustificare le proprie decisioni.
Sino a quando sarà in corso l’emergenza, infatti, il lavoro in modalità “Agile” rappresenterà infatti una vera e propria misura di prevenzione che il datore di lavoro deve adottare per evitare di esporre al contagio il proprio personale.
Occorre infatti tener presente che in capo al datore di lavoro sussiste un preciso obbligo di protezione della salute psico-fisica del prestatore di lavoro che trova la propria fonte nell’art. 2087 cod. civ.: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
L’obbligo di prevenzione di cui all’art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro di adottare (i) le misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo di attività esercitata; (ii) le misure generiche dettate dalla comune prudenza; (iii) tutte le altre misure che in concreto si rendano necessarie per la tutela del lavoratore secondo la particolarità del lavoro, dell’esperienza e della tecnica.
Dunque, ai sensi dell’art. 2087 Cod. Civ. la responsabilità per violazione di obblighi è configurabile nel caso in cui il comportamento del datore di lavoro costituisca inadempimento di una regola di condotta preesistente al fatto lesivo e, quindi, quando il datore di lavoro
Ne consegue che la violazione di questo obbligo comporta il rischio che sia imputata al datore di lavoro la responsabilità in questo caso (i) di un eventuale contagio di un lavoratore per effetto della frequentazione degli uffici, (ii) della diffusione del COVID-19 in considerazione del contatto tra più soggetti presso la sede di lavoro, con la conseguenza che possa essere chiamato a risarcire il lavoratore o i soggetti contagiati per l’eventuale danno patito e a rispondere dei reati che danno origine alla responsabilità amministrativa della società.
Da ultimo si sottolinea che la rilevanza della previsione contenuta nell’art. 2087 Cod. Civ. emerge soprattutto nella lettura combinata con la disposizione contenuta nell’art. 25 septies, D. Lgs. n. 231/2001 che prevede tra i reati che danno origine alla responsabilità amministrativa della società, l’omicidio colposo (art. 589 Cod. Pen.) e le lesioni personali colpose (art. 590 Cod. Pen.) quali conseguenze della violazione della normativa sulla salute e sicurezza sul lavoro.
In questo caso, le sanzioni a cui sarà soggetto l’ente potranno essere di carattere pecuniario e interdittivo.
Indubbiamente, questo sarebbe un prezzo molto alto da pagare per i datori di lavoro che da molteplici punti di vista si ritrovano, oggi, a fronteggiare – talvolta con mezzi e risorse ridottissime – le conseguenze COVID-19 e ad evitare il blocco totale dell’attività aziendale.
In definitiva, il datore di lavoro non può abbassare la guardia. E in questo contesto si inserisce il Protocollo per la regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro che le Parti Sociali hanno siglato il 14 marzo 2020.
Fin dall’introduzione, il Protocollo sancisce che si ritiene prioritario l’obiettivo di coniugare la prosecuzione delle attività produttive con la garanzia di condizioni di salubrità e sicurezza degli ambienti di lavoro e delle modalità lavorative e fa intendere che il lavoro agile, unitamente alla possibilità per l’azienda di ricorrere gli ammortizzatori sociali e assieme ad altre soluzioni organizzative straordinarie, rappresenta una misura che favorisce il contenimento della diffusione del virus.
In particolare, poi al punto 8 “Organizzazione aziendale (turnazione, trasferte e lavoro agile, rimodulazione dei livelli produttivi” si prevede che, limitatamente al periodo della emergenza dovuta al COVID-19, le imprese dovranno:
• disporre la chiusura di tutti i reparti diversi dalla produzione;
• procedere ad una rimodulazione dei livelli produttivi;
• prevedere un piano di turnazione dei dipendenti dedicati alla produzione;
• utilizzare il lavoro agile per tutte quelle attività che possono essere svolte presso il domicilio o a distanza;
• nel caso in cui vengano utilizzati ammortizzatori sociali, anche in deroga, valutare la possibilità di assicurare che gli stessi riguardino l’intera compagine aziendale, se del caso anche con opportune rotazioni;
• utilizzare in via prioritaria gli ammortizzatori sociali disponibili (par, rol, banca ore)
• nel caso in cui l’utilizzo dei predetti istituti non risulti sufficiente, si utilizzeranno i periodi di ferie arretrati e non ancora fruiti;
• annullare tutte le trasferte/viaggi di lavoro nazionali e internazionali.
Lo stesso Protocollo, per le aziende a cui si applica, contiene le linee guida per l’adozione da parte delle aziende di protocolli di sicurezza in attuazione delle disposizioni contenute nel DPCM dell’11 marzo u.s. e prevede la creazione in azienda un Comitato per l’applicazione e la verifica delle regole del protocollo con la partecipazione delle rappresentanze sindacali e del RLS.
Fonte: Agendadigitale.eu
Ecco il commento in merito di Vittorio De Luca, pubblicato anche da Affari Italiani.
In merito al lavoro agile e diffusione del virus Covid-19, Vittorio De Luca dello Studio De Luca & Partners commenta: “Siamo in piena emergenza e molte aziende sono state improvvisamente costrette a cercare e ad adottare prontamente alternative al normale svolgimento dell’attività lavorativa. In altre parole, le aziende da un giorno all’altro hanno dovuto ripensare e riorganizzare il lavoro e rivalutare il cosiddetto lavoro agile. Ma cosa succede a tutte quelle aziende che non hanno voluto o potuto adottare questo nuovo approccio al lavoro? In primo luogo, diciamo che sino a quando non sarà cessata l’emergenza Covid-19, il datore di lavoro non è totalmente libero di decidere se ricorrere o meno al lavoro agile. In effetti, il DPCM dell’ 11 marzo, prevede che sia attuato il massimo utilizzo da parte delle imprese di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza”.
“Occorre poi considerare – continua De Luca – che sul datore di lavoro incombe un preciso obbligo di protezione della salute psico-fisica del lavoratore che trova la propria fonte nell’art. 2087 cod. civ. L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Il datore di lavoro deve, cioè, adottare tutte le misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo di attività esercitata, le misure generiche dettate dalla comune prudenza e tutte le altre misure che, in concreto, si rendano necessarie per la tutela del lavoratore secondo la particolarità del lavoro, dell’esperienza e della tecnica. La violazione di questo obbligo comporta il rischio che sia imputata al datore di lavoro la responsabilità, in questo caso, di un eventuale contagio e della diffusione dello stesso. Il datore di lavoro potrebbe essere pertanto chiamato a risarcire il lavoratore per l’eventuale danno patito e a rispondere dei reati che danno origine alla responsabilità amministrativa della società” conclude Vittorio De Luca.