La Corte di Appello di Bologna, affermando nella sentenza 12 aprile 2022, n. 315 che nel rapporto di lavoro subordinato il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale rientra nell’orario di lavoro soltanto se è assoggettato al potere conformativo del datore di lavoro, e che ciò può derivare o dalla esplicita disciplina di impresa o, implicitamente, dalla natura degli indumenti o dalla funzione che essi devono assolvere, tali da determinare un obbligo di indossare la divisa sul luogo di lavoro, offre l’occasione per soffermarsi sulle peculiarità degli orientamenti giurisprudenziali espressi dalla Corte di Cassazione negli ultimi anni, con particolare riguardo agli indici di eterodirezione
Prima di esaminare nel dettaglio la sentenza della Corte di Appello di Bologna 12 aprile 2022, n. 315 in commento e vedere come la stessa si colloca nel panorama giurisprudenziale di riferimento, appare utile soffermarsi sulla normativa di riferimento.
Ai sensi del D.lgs. 66/2003 all’art. 1, comma 2, lett. a, per orario di lavoro si intende “qualsiasi periodo in cui il lavoratore resta a disposizione del proprio datore di lavoro, nell’esercizio delle sue attività lavorative o delle sue funzioni“. Pertanto, la nozione di orario di lavoro effettivo non comprende solo la prestazione del lavoratore intesa in senso stretto, bensì anche tutte quelle operazioni che risultano strettamente funzionali alla prestazione e che il dipendente deve necessariamente compiere secondo le modalità stabilite dal datore di lavoro.
Ormai è consolidato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’eterodirezione può desumersi da indici diversi quali l’esplicita disciplina d’impresa o la natura degli indumenti e la specifica funzione che devono assolvere, quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili nella quotidianità (Cass. civ. Sez. lavoro, Ordinanza, 20/06/2019, n. 16604; Cass. civ., Sez. lavoro, Sentenza, 26/01/2016, n. 1352).
Per quanto riguarda l’esplicita disciplina d’impresa, l’eterodirezione può emergere dall’obbligo aziendale di indossare la divisa nel luogo di lavoro e di lasciare la medesima nei locali aziendali.
In alcuni casi, inoltre, l’eterodirezione può desumersi anche dalla natura degli indumenti da indossare e dalla funzione che essi devono assolvere. Si pensi, ad esempio, al caso delle divise degli infermieri operanti all’interno delle strutture sanitarie: per esigenze di igiene e sicurezza sia dei dipendenti che del pubblico è necessario che le divise siano indossate e dismesse sul luogo di lavoro prima dell’inizio del turno e alla fine senza mai essere portate all’esterno. Si tratta, infatti, di modalità comportamentali imposte da imprescindibili esigenze datoriali (oltre che di tutela della salute pubblica) e che, come tali, sono da considerarsi tempo di lavoro da retribuire, non avendo il lavoratore la possibilità di scegliere di agire diversamente e indossare la divisa a casa (Cass. Ordinanza del 1° luglio 2019, n. 17635).
Analogamente, anche l’inserviente della mensa per ragioni sanitarie deve indossare la divisa in spogliatoi aziendali che siano in contiguità spaziale rispetto alla sede della mensa, a nulla rilevando che la normativa contrattuale non contempli la computabilità dei tempi di vestizione nell’orario di lavoro
Dunque, è evidente che la particolare natura dell’indumento può costituire un mero indice sussidiario per l’accertamento dell’eterodirezione, fermo restando che il criterio determinante rimane quello della sottoposizione del dipendente a una disposizione pattizia (CCNL o contratto integrativo aziendale) o aziendale (come, ad esempio, un regolamento aziendale o un ordine di servizio) che stabilisca il tempo e il luogo dell’attività di vestizione e dismissione degli abiti.
Alcuni dipendenti in forza presso un’azienda operante nel settore chimico avevano adito il Tribunale territorialmente competente affinché la stessa venisse condannata al pagamento in loro favore della remunerazione del tempo, pari a 20 minuti giornalieri, che impiegavano per indossare e dismettere la tuta di lavoro, nonché per fare la doccia.
Il Tribunale accoglieva il ricorso, sulla base delle seguenti argomentazioni, secondo cui “la eterodirezione può derivare dall’esplicita disciplina di impresa, ma anche risultare implicitamente dalla natura degli indumenti, quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell’abbigliamento“, citando una Ordinanza della Corte di Cassazione che si riferisce però all’attività peculiare degli infermieri (Cass. civ., Sez. lavoro, Ordinanza, 07/05/2020, n. 8627).
In forza di tale assunto, il Tribunale riteneva che “il dato dell’eterodirezione relativa alla fase di vestizione e di svestizione può derivare non solo da indicazioni specifiche ma anche implicitamente da un contesto nel quale questa attività deve necessariamente svolgersi in un contesto lavorativo date le caratteristiche dell’attività svolta, e questo indipendentemente dalla circostanza che gli indumenti possano essere considerati DPI o semplicemente indumenti utilizzati per motivi di igiene“.
Secondo il Giudice, quindi, “Tutte le testimonianze ricordate univocamente portano a concludere che nei reparti operativi ci si sporca, il tipo di lavorazione rende l’evento sostanzialmente inevitabile, conseguentemente ritenere che si possa arrivare da casa con i propri vestiti e con gli stessi tornare dopo la conclusione del turno appare una astrazione, indipendentemente dai DPI che, per altro, per le caratteristiche sono tali da escludere un utilizzo esterno all’ambiente lavorativo“.
Di conseguenza, secondo il primo giudice “si può parlare in questo caso di una situazione di fatto nella quale l’attività di vestizione e svestizione nell’ambiente di lavoro è una necessità determinata dall’attività stessa e questo determina che anche senza delle indicazioni univoche ed esplicite di etero-direzione per tali operazioni sia implicitamente necessitato operare questo impegno in ambito lavorativo“, come se la prova dell’eterodirezione fosse in re ipsa, a causa della tipologia di attività.
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Con la sentenza 15763 del 7 giugno 2021, la Corte di cassazione è tornata a pronunciarsi sulla questione del “tempo tuta”, ovvero il tempo impiegato dai dipendenti per effettuare le operazioni di vestizione/svestizione degli indumenti da lavoro.
Nel caso oggetto di controversia, la Corte di appello di Roma, in riforma della pronuncia di primo grado, aveva respinto la domanda formulata dai dipendenti di un’azienda per vedersi riconoscere la retribuzione del tempo impiegato a indossare e dismettere gli abiti da lavoro e gli altri dispositivi di protezione individuale. Ciò in quanto dall’accertamento di fatto svolto era emerso che la società non imponeva ai propri lavoratori modalità di vestizione e svestizione. Pertanto, secondo la Corte territoriale, avendo la stessa rinunciato «a esercitare il proprio potere di eterodirezione in relazione a tale attività, nessun obbligo retributivo derivante da corrispettività gravava su di essa riguardo al c.d. tempo tuta».
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